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mercoledì 12 febbraio 2014

Breeding Pokèmon, guida pratica all’allevamento di Pokèmon competitivi

Salve salvino gente sono Gambero.

Finalmente è giunto il momento di pubblicare il materiale che preparo da un po' di tempo: si tratta di una guida per allevare Pokèmon competitivi. Ho iniziato ad allevare da poco per cui la guida potrebbe presentare vari errori o imperfezioni che sarò lietissimo di correggere con il vostro aiuto.


Per festeggiare questa pubblicazione il NoPipe ha deciso di mettere in palio un fantastico regalo: un KYOGRE SHINY

mercoledì 5 febbraio 2014

Aiuto Android! Memoria quasi piena!

Salve salvino gente, sono Gambero. Volevo parlarvi quest'oggi di un problema che ho riscontrato nelle ultime settimane col mio cellulare Android (un Samsung Galaxy S2 per la precisione).
Da qualche tempo infatti una fastidiosissima notifica compariva sempre più di frequente sul mio schermo:


giovedì 1 novembre 2012

"La stella" Disponibile in formato pdf!

Come richiesto da molti lettori ripubblichiamo qui in versione riveduta e corretta l'intero racconto "La stella" in formato pdf, speriamo sia leggibile magari anche su un tablet e similari in modo da renderne più comodo l'uso.

Enjoy!

Scarica da mediafire


martedì 21 agosto 2012

Settima e ultima parte del racconto "La stella"

Ebbene, siamo giunti alla fine di questo primo racconto. Gli esami hanno portato via molto più tempo del previsto, da qui l'enorme tempo intercorso dall'ultimo capitolo. Grazie come sempre a Sara per l'editing! 

Siamo veramente giunti alla fine. 
O forse no?

Enjoy!

lunedì 6 agosto 2012

Programmazione Android: Introduzione alle Google Maps

Salve a tutti amici del NoPipe Blog, parla Gambero,
in questi giorni ho ripreso a programmare app per Android, dopo un mesetto di sosta post esame (anche se purtroppo è solo una sosta dal mondo Android, perchè stiamo impazzendo per un altro esame). La mia idea era quella di creare un'app, per mio uso personale, che mi aiuti a ritrovare la mia auto (che oramai tutti conoscete grazie ai video On The Road) quando la parcheggio in luoghi remoti durante le peripezie del NoPipe.
So che esistono già applicazioni che svolgono la stessa funzione ma non mi interessa. Lo faccio più che altro per tenermi in allenamento.
Veniamo al dunque. Una parte di questa mia applicazione sarà costituita appunto da una mappa in cui sarà segnalata la mia posizione, quella della mia auto e la strada più breve per ricongiungerci amorevolmente. Siccome per la visualizzazione di mappe Google mette a disposizione tutto l'occorrente per interagire direttamente con le Google Maps ho deciso di sfruttare questa risorsa (che poi credo sia l'unica via possibile in realtà).
Siccome occorre registrarsi per ottenere la chiave da usare per le mappe ho deciso di mostrarvi una piccola guida per effettuare la registrazione che, per quanto semplice, ha bisogno di qualche passo non del tutto banale.
Ma "ciancio alla bande" (si lo so, oggi sto male) cominciamo la guida:

venerdì 6 luglio 2012

Sesta parte del racconto "La stella"

Finalmente ce l'abbiamo fatta! Ci scusiamo per l'enorme tempo che è passato dalla scorsa parte ma gli esami incombevano e incombono ancora. I ringraziamenti vanno come al solito a Sara per il suo lavoro di editing.


Enjoy!

mercoledì 27 giugno 2012

Indagini su due ruote

Amici del NoPipe Blog, sono Gambero.
Volevo parlarvi di una cosa che mi succede spessissimo durante i miei allenamenti in bici.
Casa mia è situata su di un circuito di circa tredici chilometri completamente pianeggiante, salvo per due cavalcavia. In questo circuito svolgo gran parte dei miei allenamenti ed è proprio qui che da qualche anno mi capita il FATTACCIO.

sabato 16 giugno 2012

Cronache di un pomeriggio di relax

Salve a tutti amici del NoPipe Blog, sono Gambero.
Ho deciso di spezzare, almeno per una volta sola, il nostro classico silenzio del weekend perché volevo rendervi tutti partecipi del mio pomeriggio.
Siccome durante questa settimana ho fatto abbastanza tardi per varie sere e al mattino quasi tutti i giorni, volente o nolente, dovevo svegliarmi presto sono arrivato a oggi (sabato) abbastanza scarico, aggiungiamo pure anche il fatto che mi sono allenato in bici vari giorni della settimana sotto un vento epocale, oggi ho deciso di prendermi un pomeriggio di relax.
Dopo aver sistemato un paio di cosucce in casa mi sono armato di costume e sono sceso in giardino, dove da quest'anno abbiamo piazzato un piccolo angolo "mare" in campagna. Ecco un'immagine che rende l'idea più di mille parole:



Avevo portato con me anche "L'ombra della profezia", il nono libro dell'edizione italiana di Game Of Thrones  (ebbene si, in Italia i libri di questa serie vengono divisi, così anziché avere quattro libri ne hai dodici, che ovviamente devi pagare separatamente).
Ho aperto l'ombrellone e, dopo aver aggiustato il lettino che si era clamorosamente autosmontato, mi sono dedicato allo svacco più totale: si stava da Dio, gli unici rumori che si sentivano erano quelli del vento fra gli alberi e di qualche insetto svolazzante.
Dopo circa un'oretta steso così mi sono preso una "pausa" gelato: un bel cono all'amarena. Giusto per rinfrescarmi un po', dopodiché sono ritornato nel mio angolo di pace.
Ci sono rimasto un'altra oretta: credo di avere anche dormito perché è passata veramente in fretta.
Ero talmente rilassato che il libro è rimasto sul tavolino chiuso per tutto il tempo in cui sono stato li: ne avevo per le palle anche di leggere siccome ad occhi chiusi si stava troppo bene.
Una volta rientrato in casa, non essendomi ancora rilassato al 100% come volevo, ho deciso di riempire la vasca da bagno che uso in genere solo in inverno dopo gli allenamenti per riscaldarmi. Mi sono immerso nell'acqua fresca armato di bicchiere di the fresco al limone e ho perso una mezz'oretta anche qui.
Devo ammetterlo ora ho le pile ricaricate in pieno e sono pronto per la serata. Sono talmente rilassato e felice che ho voluto rendervi partecipi della cosa.
Consiglio comunque a tutti di prendersi un pomeriggio del genere una volta ogni tanto perché si sta veramente bene.

Ciao a tutti da Gambero,
buon weekend. :)

martedì 12 giugno 2012

Quinta parte del racconto "La stella"

Scusate il ritardo ma questa volta abbiamo dato fondo alla nostra fantasia e si è resa necessaria qualche pagina in più. I ringraziamenti vanno come al solito a Sara per il suo lavoro da editor che è davvero insostituibile!

Enjoy!


PROLOGO

Parte quinta

Non possono credere che siano solo coincidenze.” Padre Cesare stava osservando pensieroso il giardino dalla piccola feritoia della sua cella, come faceva ormai da un paio di notti, prima di farsi prendere dal sonno.
Evaristo è convinto che le morti segnate nei necrologi non siano fra loro collegate… Come può pensare una cosa del genere? I sintomi sono gli stessi, persino le sentenze di morte sono identiche! Se nemmeno un medico è in grado di riconoscere il morbo con precisione, come può pretendere di trovare una cura nella nostra biblioteca, qui dove tutto è affidato alla grazia divina!”
«Le tue sono solo supposizioni, nate dal fatto che vuoi renderti utile, Cesare. La tua passione è encomiabile ma non crucciarti cosi. Anche se non siete riusciti a trovare qualcosa che possa curare il povero Alfredo il vostro impegno è stato certamente riconosciuto dal Signore, e vedrai che il vostro lavoro non sarà vano» Evaristo era stato chiaro, non avendo trovato qualcosa di simile a una cura, ogni altra presunta scoperta ricavata da quel mare di scartoffie era, nei fatti, completamente inutile.
No, io credo che qualcosa sia accaduto qui, e stia accadendo di nuovo, le date parlano chiaro. Circa ogni quindici anni qualcuno si ammala e alla fine muore dello stesso morbo. Questo si ripresenta nello stesso modo ogni volta, ma nessuno sembra farci caso. Non possono...” il corso dei suoi pensieri si interruppe bruscamente. La vide. Di nuovo.
L'ombra stavolta si muoveva lentamente, e Cesare poté osservarla meglio: era una figura umana, ora la distingueva molto più chiaramente, e dal momento in cui se ne rese conto, il tarlo della paura si insinuò in lui.
E' quella dell'altra volta, non c'è dubbio.”
Ne era certo ad un livello intimo, come se la sensazione di inquietudine che trasmetteva la rendesse inconfondibile ai suoi sensi.
Questa volta era emersa dall'area buia che era il piccolo cimitero dell'eremo.
Cesare la vide dirigersi con innaturale lentezza verso il porticato tra i giardini e il cortile interno. Proprio quando stava per uscire dalla sua visuale, l’ombra si fermò di colpo.
Cesare non poté trattenere un fremito. “Dio, fa che non mi abbia visto” pregò.
La figura non era che un’ombra lontana, ma Cesare poté chiaramente distinguere quando questa alzò la testa verso di lui.
Luce.
Gli occhi erano come due piccoli soli che squarciarono il velo di buio della cella di Cesare. “Signore, vengo a raggiungerti” pensò. Non riusciva a distogliere lo sguardo, e la luce intorno a lui si faceva sempre più intensa e calda. Improvvisamente si ricordò di ciò che stava accadendo nell'eremo, del motivo per cui era stato trasferito lì.
No, Dio, devo ancora fare ammenda per i miei peccati, non è ancora giunto il mio momento, ti prego lasciami un altro po' di tempo e potrai fare di me ciò che vorrai, ma prima voglio essere un tuo strumento ancora una volta e portare il bene in questo mondo. Dio, Ascoltami!” si ritrovò ad implorare silenziosamente mentre la luce si faceva insopportabile.
E Cesare seppe che per lui era la fine.

«NO!»
Si era svegliato in un mare di sudore: l'unico rumore che percepiva era il suo stesso rantolo affannato, causato dallo spavento.
Si vestì, continuando a tornare con la mente al sogno di quella notte, non gli capitava da molto tempo di fare incubi.
Ormai è tardi, ed esso fa parte della notte” concluse infine. Ma i sogni sono così, anche i più angosciosi scorrono via come acqua tra le dita al levarsi del sole, e infatti anche l’ultimo ricordo residuo di quelle immagini si perse nel vuoto, lasciando libero Cesare di dedicarsi alla giornata.
Si recò come sempre in chiesa per le preghiere mattutine; quando queste finirono Durante gli andò subito incontro.
«Allora Cesare, sei riuscito ad ottenere il permesso di vedere Alfredo?»
«Non ancora, il medico ormai è intrattabile. Consente solo ad Evaristo di entrare. Non è ancora riuscito a capire se il morbo può diffondersi o meno.»
«Mi sembrerebbe giusto farti entrare da lui almeno una volta, per conoscerlo, visto che ti sei impegnato molto nel cercare una possibile cura. Ne hai parlato con Evaristo?»
«Si, ma non vuole che rischi di ammalarmi. Soprattutto non accetta le mie ipotesi sul fatto che questo morbo si ripresenti a intervalli regolari. Secondo quando riportato nei testi i sintomi sono chiaramente sempre i medesimi e nessuno è mai stato contagiato, oltre alla persona in questione.»
Durante rimase a fissarlo per qualche secondo, i suoi occhi tradivano un’intensa attività di pensiero. Alla fine il fratello rispose: «Proverò a parlare io con Evaristo. Visto che siamo arrivati in quest’eremo praticamente insieme, probabilmente ho più possibilità di convincerlo a farti entrare.»
«Ti ringrazio. Non faresti solo un favore a me, ma anche ad Alfredo.»
Durante si congedò con un sorriso benevolo e si avviò sotto il porticato.
Cesare si diresse verso la biblioteca, dove era stato definitivamente assegnato come aiutante di Padre Adriano. Al contrario delle aspettative di Cesare, il bibliotecario una volta nel suo ambiente diveniva una persona silenziosa e concentrata, che non aveva nulla a che fare col carattere focoso ed impulsivo che esibiva al di fuori.
Cesare trascorse la giornata sistemando pile di tomi, lasciati in eredità all’eremo da un vecchio nobile di Nibizzola, deceduto da poco. Quando terminò di catalogare tutto, nel tardo pomeriggio, Adriano lo congedò, lasciandolo libero di andare a pregare in chiesa, in attesa della cena.
Mentre scendeva le scale che davano sul porticato, la sua attenzione venne attirata da una strana scena. A poca distanza da lui, nella penombra del tramonto, Evaristo e Durante si fissavano, l’uno da un lato all’altro del portico, i loro sguardi indecifrabili davano l’idea che si fosse appena conclusa una conversazione alquanto accesa ma nessuno dei due pronunciava più una parola. Cesare rimase bloccato sulle scale, incapace di comprendere se ci fosse tensione o meno fra i due. Alla fine Evaristo spezzò il silenzio:
«D’accordo» disse, e si avviò con passo deciso verso la chiesa.
Cesare finì di scendere gli ultimi gradini e salutò Durante: «Dante, tutto bene?»
«Cesare, ho una buona notizia. Sono riuscito a convincere l’abate a farti visitare Alfredo» gli rispose questo sorridendo.
«Spero che ciò non ti abbia creato problemi con Evaristo.»
«No, non preoccuparti. Credo che alla fine anche lui abbia capito che questo può aiutare ad alimentare la tua fede. Il Signore ti proteggerà, non temere.»
«Grazie Dante, ti sono debitore.»
«Tranquillo, non esistono debiti tra fratelli» lo rassicurò.
«Vedrai che il mio intervento non sarà vano»
«Non ho dubbi » concluse Durante, e si allontanò con un ultimo sorriso.
E’ il momento” pensò.
Provava una strana ansia per quello che si accingeva a fare, ma ci aveva riflettuto a lungo negli ultimi giorni ed ora si scopriva più determinato che mai.
Tutti i fratelli erano già riuniti in chiesa per le preghiere serali, quando si trovò, solo, davanti alla porta della cella di Alfredo, fermato da una strana sensazione. Quando si accorse che la mano gli stava tremando, bloccata nel gesto di aprire la porta, si riscosse ed entrò con decisione.
Alfredo era steso sul letto, in una posizione che chiunque avrebbe trovato più che scomoda: gli arti superiori ormai irrigiditi, uno steso lungo il fianco, l'altro sollevato fin sopra la testa. Le dita delle mani sembravano rotte da quanto deformi, ma la cosa più sconvolgente era certamente il viso: la parte sinistra del volto era contratta, sfigurata da una smorfia, lo zigomo talmente sollevato da schiacciare l'occhio nella sua stessa orbita.
«Ch-chi è?» La sua voce era il lamento di un vecchio.
«Buona sera Alfredo, sono Padre Cesare, un fratello arrivato da pochi giorni. Volevo fare la tua conoscenza.»
«P-piacere di conoscerti... F-fratello.»
«Come stai?»
Alfredo girò appena la testa, per cercare di guardarlo negli occhi, lo sforzo gli costò un basso gemito che non riuscì a trattenere. Era evidente che ogni minimo movimento doveva procurargli dei dolori lancinanti.
«Il corpo sembra dire il contrario, ne sono consapevole, ma nella mia anima sono sereno.»
Cesare si sedette accanto al letto, per permettere ad Alfredo di guardarlo in viso senza doversi scostare dai cuscini che lo sorreggevano.
«Mi hanno raccontato della tua fede incrollabile, che ti spinge a restare qui al monastero nonostante tutto il dolore che provi.»
«Il Signore è con me, in ogni momento. L-lo sento vicino anche ora... È lui che ti ha portato da me.»
Si, evidentemente il Signore mi ha fatto trovare quei necrologi” pensò Cesare.
«Il medico cosa ne pensa?»
«I-il medico continua a dire... C-continua a dire che se resterò qui morirò» disse.
«Non credi che possa aver ragione?»
Alfredo sospirò. «P-potrebbe anche aver ragione... m-ma io reputo questa malattia una prova di Dio per purificare i miei peccati... una v-volta conclusa... c-che io sia qui o meno avrà poca importanza... l-la mia anima sarà pura, e io sarò in p-pace col Signore... e con me stesso.»
«Alfredo, tu hai poco più di vent'anni. Come puoi pensare di aver commesso dei peccati tali da meritarti questo tormento?» lo sguardo di Cesare era pieno di tenerezza.
Io avrei meritato tutto questo, non certo tu.”
Alfredo ricambiò lo sguardo del confratello, quasi con pietà, e Cesare intravide un sorriso amaro attraverso la maschera deforme che era ormai il suo viso.
«A-avevo circa dieci anni quando i miei genitori morirono... m-mi rimase solo una cosa, il nulla. L'incendio... l'incendio che aveva distrutto la nostra casa si portò via loro e tutti i nostri averi...» Fece una pausa, il respiro affannato, Cesare continuò a fissarlo in silenzio, poi Alfredo continuò: «D-divenni un randagio, costretto a vivere di stenti... c-col rischio di morire ogni giorno in qualche vicolo... A-alla fine iniziai a rubare... i primi anni mi limitavo a sottrarre qualche frutto o p-pezzo di pane nei mercati... p-poi crescendo la cupidigia si era impadronita di me.. E-entrai a far parte di un masnada di f-farabutti... c-con loro avevo almeno vitto e alloggio... c-credevo di aver trovato una nuova casa, per quanto squallida fosse... ma avevo trovato il diavolo.»
«Strade di quel genere purtroppo non portano mai a cose buone.» annuì Cesare, ma il racconto di Alfredo non era finito, il suo respiro si faceva sempre più pesante, ma subito riprese a parlare.
«D-derubavamo case di mercanti e nobili... Dalla nostra avevamo il fatto di essere giovani e forti... non eravamo certo organizzati ma i-in qualche modo riuscivamo sempre a scamparla.»
«Nessuno può andare avanti a lungo conducendo una vita del genere. Come sei arrivato fino a qui? Dove hai trovato la fede che ti sostiene anche ora?» lo interruppe Cesare, non era un confessore e si sentì in dovere di fermare il fratello prima che finisse per condividere con lui troppi dettagli.
«Q-questo è uno dei capitoli più bui della mia vita... c-capitò sette inverni fa... Avevamo adocchiato la casa di una vecchia s-signora... e-era la moglie di un contabile, deceduto da pochi mesi... e-era rimasta da sola con tutti gli averi del marito... n-noi scherzavamo sul fatto c-che nel t-tempo che le restava da vivere non sarebbe mai riuscita a spendere t-tutto, le avremmo fatto solo un f-favore privandola di qualche gioiello.»
Cesare lo osservava. Quello che vedeva era un uomo sostenuto dalla voglia di redenzione. Iniziava a sentire dentro di se una strana empatia verso il ragazzo “Dopo quello che ho commesso potrò mai diventare tanto forte anche io?” si domandava.
Alfredo proseguì: «C-colpimmo di notte, come al solito... c'era molto più oro di quello che avessimo mai immaginato... i-io osai più di tutti gli altri, mi azzardai fin nella s-stanza da letto, senza fare rumore... e l-lì trovai la signora che dormiva, ignara della mia presenza. P-preso da una maniacale cupidigia afferrai istintivamente la collana lasciata sul comò affianco al letto... e-era l'unica cosa di valore che avevo individuato in quella camera, doveva essere mia... a-alla fine scappammo, con tutta la refurtiva. Ebbi un moto di rabbia il giorno dopo, quando mi accorsi che la collana che avevo preso non era d'oro, ma solamente di metallo brillante... P-preso dalla furia ritornai di corsa alla villa della signora, con l'intenzione di frantumargliela contro il muro esterno, perché la trovasse... Q-quando arrivai li però trovai una folla di persone ammassata contro il c-cancello... Incuriosito mi a-avvicinai e chiesi ad uno dei presenti cosa fosse successo, g-gongolando nel conoscere già la notizia che mi attendeva... Q-quello che ottenni però fu un colpo al cuore: “Quei tangheri maledetti! Le hanno rubato tutto, davvero tutto! Le guardie hanno trovato la signora impiccata nella sua stanza! Ha persino lasciato un foglio per quei bastardi maledetti! Dice che avrebbe sopportato il furto di qualunque cosa, ma non dell'unico ricordo legato al suo povero figlio, perduto qualche anno fa: la sua collana! E la beffa più grossa è che non valeva niente! Spero che quei maledetti marciscano all'inferno, nel rimorso di quello che hanno compiuto!”»
Cesare rimase bloccato, un peso gli premeva sul cuore, improvvisamente in quella piccola stanza si sentiva soffocare: “Ora capisco Signore, le tue vie sono davvero infinite. Intendi mostrarmi la strada che devo seguire mettendomi di fronte a peccati simili ai miei?”
«D-da quel giorno una pietra venne calata sulla mia anima... d-decisi che dovevo rimediare in ogni modo a quello che avevo compiuto... p-per la prima volta nella mia vita, in preda al rimorso, mi confessai in chiesa... I-il parroco, benedetto sia per l'eternità, m-mi accolse sotto la sua ala, mostrandomi la via da seguire... Alla fine presi i voti, ma sentivo c-che ancora non era sufficiente... p-per mondarmi dal terribile peccato che avevo commesso non sarebbe bastata tutta la mia esistenza. Per questo decisi di entrare nell'eremo di Nibizzola, p-per dedicare la mia vita solo ed esclusivamente al Signore... Q-quello che mi sta accadendo adesso è soltanto una prova in più a cui Dio mi ha destinato nel lungo cammino che m-mi condurrà infine da lui.»
Cesare non ricordava più nemmeno il motivo per cui si era tanto voluto recare lì.
Tutto quello che custodiva dentro di se da così tanto tempo premeva per uscire fuori con una furia incontrollata, che gli stava diventando insopportabile.
«C-cesare, tu perché sei giunto in quest'eremo?»
La domanda, così diretta, lo spiazzò per un attimo, ma sentì che doveva liberarsi di quel peso, era il momento, il luogo, e non aveva senso trattenersi oltre: “Che persona meschina sono. Ho il coraggio di confessarmi solo ad un morente” si rimproverò.
«Voglio che tu sappia fin da subito che io non ho preso i voti perché ho sentito la chiamata del Signore. Fu la povertà della mia famiglia a costringermi a questa scelta. Per quanto fossi stato sempre molto credente immaginavo la mia vita come quella di un uomo normale, volevo creare una mia famiglia e vivere in pace. Purtroppo però ero l'ultimo di tre fratelli ed i miei genitori non sarebbero mai riusciti a mantenerci tutti quanti. Così non appena raggiunsi l'età giusta venni spedito in seminario. Inizialmente non riuscivo a concepire il fatto di essere stato allontanato da casa per una mera ragione economica, ma alla fine capii. Davanti a me si presentò il disegno che Dio aveva preparato per farmi trovare la vera fede. Ogni cosa era al suo posto, e riuscivo a sentirmi in pace. Riuscii a ringraziare anche i miei genitori per la scelta che mi avevano imposto.»
Cesare sospirò, poi proseguì: «Quanto mi sbagliavo. Mi ero illuso di aver trovato la vera fede, ma dentro me albergava ancora, anche se in piccola parte, il rimpianto per non aver ottenuto la vita che desideravo.»
Si interruppe un istante, come per ritrovare un’immagine lontana, sepolta nella mente: «La conobbi durante una benedizione pasquale. In quel periodo mi aggiravo per le case del mio paese, per portare la protezione di nostro Signore sulle abitazioni dei fedeli.
Era la figlia di un commerciante della zona. Fu lei ad aprire la porta al mio arrivo; era rimasta in casa da sola a svolgere le faccende domestiche mentre i genitori erano al lavoro. Terminata la benedizione mi chiese se potevo rimanere un po' in casa assieme a lei, per farle compagnia, visto che passava sola la maggior parte del suo tempo. Era l'ultima casa che dovevo benedire, per cui non vidi nulla di sbagliato a rimanere a chiacchierare un po' con quella giovane. Si chiamava Eleonora, e Dio solo sa quanto l'ho amata» abbassò gli occhi, non aveva la forza di cercare in Alfredo uno sguardo di comprensione.
«Nei giorni seguenti la rividi sempre più spesso in chiesa, e ogni volta veniva da me per parlare dei suoi problemi di fanciulla, ma sopratutto del suo innamorato che non si era ancora accorto di lei, e ciò le provocava un dolore sempre più grande. Era un ragazzo che vedevo sempre nelle messe domenicali: giovane e forte, ma conteso tra molte delle donne del paese. Fu in quei momenti che quella parte di me che credevo ormai sepolta tornò ad emergere.
Iniziai a provare una sorta di invidia verso quell'uomo così fortunato da poter persino scegliere la donna con cui vivere per sempre, la donna da amare per la vita e da cui avere degli eredi.
Questo sentimento si faceva ogni giorno più incontrollabile, e alla fine si tramutò in gelosia verso Eleonora. Speravo ancora che tutto si sarebbe fermato a questo.
Alla fine decisi di dare un taglio a questa situazione, e così arrivai a consigliarle con slancio di confessare direttamente il suo amore, era una delle fanciulle più graziose del paese, ed ero sicuro che sarebbe stata accettata. Invece accadde qualcosa che sconvolse tutto.»
Finalmente riusciva a parlarne con qualcuno. Alfredo ascoltava in silenzio, l'attenzione completamente rivolta alla storia di Cesare.
«Era una sera di tempesta, i tuoni rimbombavano nella chiesa in modo così minaccioso da parere la voce stessa del diavolo che urlava tutta la sua rabbia dall'inferno. E alla fine il maligno davvero si presentò. Mi trovavo nel confessionale, in attesa di qualche sventurato disposto a sfidare il maltempo per venire a rendermi partecipe dei suoi peccati.
Ero perso nell'ascoltare la pioggia battente quando udii la sua voce dall'altra parte della grata. La riconobbi immediatamente, era lei». Nel ricordare la sua voce, quella di Cesare ebbe un tremito. “Padre, ho mentito, ho mentito così tanto da non riuscire più a sopportarlo” gli aveva sussurrato.
«Le dissi di confessare tutto liberamente, dopo qualche istante di incertezza lei riprese a parlare, e quel che disse fu quanto di più sconvolgente potessi credere di ascoltare.
Padre, ho mentito a te, solamente a te” continuava a ripetere, mentre io non riuscivo a capire. Iniziai a diventare inquieto, e le chiesi di spiegarsi, ma in tutta risposta sentii bussare al portoncino del confessionale. Aprii.» e le parole uscirono una dopo l’altra, incontrollabili,come un fiume in piena, mentre Cesare si lasciava travolgere da quel ricordo incapace di arrestarsi.
«Venni assalito dal diavolo. Ricordo l'odore dei suoi capelli bagnati dalla pioggia, e il sapore delle sue labbra umide. Nonostante fosse il demonio, era estremamente piacevole.
Così piacevole da trasmettere in me lo stesso seme del male. Non avevo mai avuto contatti con una donna prima di prendere i voti. Il sapore del peccato è sempre lo stesso, in qualunque forma esso si presenti. Credo di essere stato posseduto dal maligno in quel momento, perché ricordo pochissimo di quell'ora fatale. Quando mi riebbi, lei era stesa sulla panca del confessionale, con il mio saio a coprire le sue nudità mentre dormiva. Non sapevo cosa fare. La mia mente non riusciva a concepire quello che era appena successo, e credetti davvero di divenire pazzo, più di una volta me lo ripetei, mentre cercavo di dare un senso a tutto».
Si prese la testa, fattasi improvvisamente più pesante, tra le mani, e proseguì: «Passarono i giorni, e alla fine i mesi. Gli alberi avevano abbandonato le foglie, ma il peccato non ci aveva mai lasciati. Continuavamo a frequentarci, i nostri incontri avvenivano per lo più a casa di lei, quando era sola. Arrivai a convincermi che fosse davvero amore quello che era nato tra noi due, un amore puro di quello benedetto dal Signore, ma la parte ragionevole del mio essere urlava tutta la vergogna per quello che stavo compiendo.
Lei era nel fiore degli anni, una creatura talmente innamorata dello stesso concetto d’amore da non rendersi nemmeno conto di quanto fosse sbagliata la situazione che si era venuta a creare. Ma io volevo essere cieco a tutto questo.
Continuava a ripetermi che finché poteva restare con me non le importava di nient'altro.
Eppure, nonostante io stesso fossi perso in un sentimento che non avevo mai provato prima, la ragione riprese il sopravvento quando lei avanzò l'idea più assurda che si potesse immaginare: mi chiese di concepire un figlio.»
Alfredo lo guardava con la pietà di chi comprende a fondo le sventure avute in comune, mentre Cesare riprendeva fiato per poi proseguire.
«Ebbi finalmente il coraggio di dire basta a quella relazione incresciosa. Eleonora divenne disperata, ed a nulla servirono i miei incitamenti a farsi una vita normale, per il suo ed il mio bene. Arrivò a minacciare il suicidio. Le imposi di cancellare quei terribili pensieri e di non avvicinarsi più a me, per potermi dimenticare più in fretta.»
E' così difficile parlarne di nuovo...” pensò per un istante, quasi tentato ad interrompersi, ma Alfredo lo guardò incoraggiante, lo sguardo pieno di un affetto e una compassione quasi paterni, e cosi riprese il racconto.
«Un giorno, semplicemente, smise di cercarmi. Credevo che fosse riuscita a superare tutto quanto. Non la vidi per mesi, fino a quando non appresi la terribile notizia. I genitori l'avevano trovata nel retro della loro casa, al ritorno dal lavoro. Eleonora si era gettata dal terrazzo al secondo piano, sfracellandosi al suolo. Doveva essere rimasta agonizzante in quella posizione almeno un paio d'ore prima di perdere la vita. Tutti la conoscevano come una ragazza tranquilla e solare, l’intero paese non riusciva a capacitarsi di quel suo folle gesto. Solo io ero a conoscenza del motivo che l’aveva spinta. Da quel momento, dentro di me era come morto qualcosa. Per vari giorni meditai di compiere lo stesso gesto, l’animo stretto in una morsa di dolore atroce. Alla fine mi convinsi e confessai in lacrime quello che era accaduto tra me ed Eleonora, al mio abate. Inizialmente Padre Clemente rimase esterrefatto, vidi l’ira attraversargli lo sguardo, poi decise di aiutarmi nell’unico modo che conosceva: mi consigliò di trasferirmi in un eremo, un luogo di fede, solitario, lontano da ogni traccia di quella vicenda, dove avrei potuto dedicare la mia vita completamente a Dio, per pentirmi, ripagare il tradimento con la preghiera e purificare così la mia anima.» Infine aggiunse «Nessuno a parte te e Clemente è mai stato reso partecipe della mia storia».
Solo a questo punto Cesare alzò lo sguardo verso il volto di Alfredo: era rigato da lacrime.
«Perdonami, Alfredo. Ti sto dando altro tormento. Forse non dovevo parlarti di fatti così tristi nella tua condizione» ma mentre lo diceva si rese conto, osservando meglio il fratello,che questi stava sorridendo, le sue erano lacrime di gioia.
«Affatto Cesare... s-sono felice perché finalmente ho qui accanto a me qualcuno che riesce davvero a comprendere q-quello che provo... v-vedi, il Signore ti ha fatto veramente giungere a me, per la tua e la mia salvezza.»
Il suono di quelle parole giunse a Cesare come una benedizione, non si era mai sentito così sollevato. Riuscì a sorridere, un sorriso spontaneo che non affiorava da mesi alle sue labbra, e i due rimasero a lungo in silenzio, in pace finalmente.
La campana della chiesa, segnale della fine delle preghiere, li svegliò. Rapidamente i monaci si sarebbero riversati nel refettorio per consumare la cena in comunità.
Cesare si congedò con la promessa di tornare il giorno seguente a fargli visita.
Ebbe così inizio una nuova abitudine per Cesare. Padre Evaristo non poté che acconsentire affinché il monaco avesse il permesso di tornare regolarmente nella cella del malato: infatti, sin dal loro primo incontro le crisi e gli spasmi di Alfredo erano diminuiti drasticamente e il merito di tale sollievo non poteva che andare alla compagnia del nuovo confratello, che tanta pace pareva portare nell’animo tormentato dal morbo del giovane monaco. Lo stesso Alfredo continuava a richiedere la presenza di Cesare, anche solo come compagnia silenziosa accanto al letto.
Ora capisco, Signore. La tua volontà era questa sin dall'inizio. E' questa la fede che avevo perso? O forse non l'avevo mai trovata, e ora sono finalmente in pace? Ti ringrazio per avermi mostrato la via” cosi sì ripeteva Cesare prima di ogni loro nuovo incontro. Non aveva comunque rinunciato ad approfondire le sue indagini sulla insolita e persistente malattia che affliggeva l’amico, e approfittava di ogni loro incontro per portare avanti le sue osservazioni. Scoprì che Alfredo aveva avuto la prima crisi durante una preghiera serale circa un mese prima. Inizialmente si era pensato ad un episodio isolato, causato dalla stanchezza dovuta al ruolo di ortolano a cui era adibito, ma quando le crisi avevano preso a ripresentarsi sempre più spesso, accompagnate da crescenti spasmi muscolari che alla fine lo avevano costretto a restare disteso a letto, era stato convocato il medico. Questo aveva provato ogni tipo di rimedio, ma la condizione del malato era peggiorata a vista d'occhio ad ogni crisi.

Una sera, dopo ormai dieci giorni di visite quotidiane, al suo ingresso nella cella Cesare trovò con sorpresa Alfredo non più adagiato sui cuscini, ma seduto sul letto. Il ragazzo però aveva uno sguardo pensieroso.
«Alfredo, sei riuscito a sederti finalmente!» esultò Cesare avvicinandosi a lui.
«Già. Ce l'ho fatta» rispose questi, ma la sua voce era piatta e Cesare percepì una punta d'ansia nel suo tono.
«Che succede Alfredo? Dovresti essere felice di esserci riuscito. Cosa ti turba?»
Alfredo voltò lentamente la testa verso di lui.
«C'è una cosa di cui ancora non ti ho ancora parlato, amico mio.»
Cesare si sedette al suo fianco. «Parlamene, vedrai che ne trarrai sollievo.»
Alfredo chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. «C'è un altro motivo a cui non ti ho mai accennato, per cui non voglio essere spostato da qui. Sin dalle notti delle mie prime crisi ho iniziato a fare degli strani sogni. All'inizio credevo che fosse la febbre a procurarmeli, ma poi mi sono reso conto che c'era qualcosa di insolito, un legame fra loro, un nesso rappresentato proprio da questo eremo, o più precisamente dal nostro piccolo cimitero. Ci sei stato Cesare? In sogno mi aggiro per l'eremo, senza sosta attraverso stanze e corridoi ed infine giungo sempre li, vicino al vecchio altare situato al limitare del camposanto.»
Cesare lo aveva notato durante la sua seconda settimana di permanenza. L'altare del cimitero era un enorme blocco di marmo, simile a quello della chiesa. Gli era stato spiegato che quello era l'altare della vecchia cappella che sorgeva a Nibizzola prima della costruzione dell'eremo, quando poi questa era stata abbattuta per lasciare posto al monastero si era deciso di conservarne l’altare, lasciandolo come monumento in memoria dei primi fratelli che avevano abitato lì e che ora erano sepolti proprio in quella zona, divenuta poi il cimitero dell’eremo. L'altare ormai era ridotto ad un rudere pieno di crepe, causate dalle intemperie, ciononostante era ancora utilizzato durante le messe funebri.
«Penserai che siano sogni macabri, ma ogni volta che giungo al cimitero una luce accecante mi pervade. Quando questo accade percepisco dentro di me un enorme tepore, sento la forza della vita che scorre in me come un fiume in piena. Ogni volta mi sveglio col ricordo di quella luce. Io sono certo che quelli fossero messaggi di Dio: credo che volesse farmi capire che nonostante il mio corpo fosse vicino alla morte la mia anima era ancora piena di vita.»
«Da cosa deriva quindi questa tua ansia? Sembra che Dio ti abbia veramente salvato questa volta» chiese Cesare.
«Già, dovrei esserne felice. Eppure sento di essermi come allontanato da Lui. Da un paio di giorni questi sogni non si ripresentano. Ho conosciuto la grazia del Signore, ed ora non posso più farne a meno. Vorrei riviverlo almeno un'altra volta, anche se questo dovesse costarmi la ritrovata salute» guardò Cesare «Mi reputi un egoista?»
Il fratello si affrettò a rispondergli: «Niente affatto Alfredo, anzi credo che tutto ciò sia sempre una manifestazione del tuo amore verso Dio. Ora però devi riprendere in mano la tua vita, il Signore ti ha fatto un grande dono facendoti guarire spontaneamente, ora devi dimostrargli che tutto ciò non è stato vano.»
Alfredo finalmente sorrise. Fece per stringere la mano di Cesare, che in risposta lo abbracciò calorosamente, avendo cura di non procurargli dolore agli arti nello slancio.
«Grazie Cesare» sorrise questi ricambiando l’abbraccio.

Si svegliò di soprassalto. Vide che la stanza era immersa nell'oscurità, ma a parte questo non vi era nulla di strano. Eppure, anche dopo diversi minuti passati a rivoltarsi sul materasso, non riusciva a riprendere sonno. Era inquieto, ma non ne capiva il motivo.
Alla fine si ritrovò a fissare il giardino, come sempre.
Proprio mentre stava per tornare a chiudere gli occhi e tentare di riprendere sonno, udì distintamente dei passi veloci provenire dal piano sottostante. Improvvisamente da sotto il porticato emersero di corsa tre individui.
Aveva visto fin troppe volte una scena simile, in quell'attimo però il suo cuore prese a battere più forte “Cosa diamine sta succedendo qui?! Perché la gente continua ad aggirarsi di notte quando sarebbe proibito?!” sbottò tra sé.
Le tre figure raggiunsero il cimitero, immergendosi nell'oscurità.
Cesare non sapeva se uscire ed andare ad avvertire l'abate, ma poi la sua attenzione fu attirata nuovamente da un movimento nella zona del camposanto. Dall’oscurità uscì una sola ombra, percorrendo in senso opposto il tragitto.
I passi risuonarono sotto il porticato e sembrarono dirigersi verso il cortile interno.
Per Cesare era abbastanza.
Si diresse subito verso la porta della sua cella aprendola con foga.
DOOONG!! DOOONG!!!
Cesare si bloccò sulla soglia, impietrito.
Quelle che aveva appena udito erano le campane funebri.

mercoledì 6 giugno 2012

Short But Violent

Salve a tutti followers del No Pipe, sono Gambero.

Pubblico un mio nuovo mix di tracce, come avevo fatto qualche settimana fa.
Ho cambiato genere, spostandomi sull'electroDubstep.
Diciamo però che più che un disco completo questa volta si tratta più di una demo. Ma, come si evince dal titolo, anche se breve è parecchio carica.

Enjoy

giovedì 31 maggio 2012

Quarta parte del racconto "La stella"

Dopo varie fatiche ecco anche la quarta parte del nostro racconto: godetevela e commentate come sempre! Grazie come sempre alla nostra collaboratrice Sara per il suo lavoro di editing.

Enjoy!


PROLOGO

Quarta parte

Il canto dei monaci risuonava in tutta la chiesa come una sola voce, carica di preghiera.
Padre Cesare non partecipava al coro, era entrato nella comunità da troppo poco tempo e preferiva mantenersi in disparte.
L'abate, Padre Evaristo, dirigeva i monaci dall’alto del suo scranno con gesti ampi e armoniosi, come se stesse accarezzando le corde di uno strumento musicale.
Padre Evaristo era abate ormai da qualche tempo, uomo severo, di robusta corporatura per non dire in carne, cosa inusuale vista la ferrea dieta a base di legumi bolliti alla quale ogni monaco doveva attenersi, portava una lunga barba a punta che arrivava fin oltre la cinta del saio; era solito fissarla proprio con la cinta per evitare che questa lo impacciasse nei movimenti, sopratutto quando doveva dirigere il coro.
Padre Cesare lo osservava rapito. Evaristo teneva gli occhi chiusi, preso da una muta preghiera che veniva resa udibile dal coro, le voci che si alternavano in una perfetta melodia altalenante seguendo ogni minimo movimento delle sue mani.
“Ci vorranno mesi prima che riesca a cantare così anch'io” pensò fra sé e sé Cesare.
Nel monastero da cui proveniva, a cantare nel coro era solo una parte dei suoi confratelli, il ristretto gruppo dei conversi, mentre tutti gli altri ne erano dispensati sulla base delle diverse attività a cui potevano essere addetti.
Padre Cesare sapeva di non aver mai posseduto una particolare attitudine per il canto, ma nell'eremo di San Costante vivevano solo sedici monaci, lui compreso, perciò tutti avevano il dovere di partecipare al coro.
In quel momento erano quindici i monaci nella piccola chiesa dell'eremo.
L'assente era Padre Alfredo, un giovane frate, di non più di una ventina d'anni, costretto a letto ormai da giorni da un morbo sconosciuto, dal quale pareva non riuscire a guarire.
Il medico che aveva incontrato alla locanda si presentava all’eremo ogni due o al massimo tre giorni, per sincerarsi delle condizioni di Alfredo. Dal suo arrivo Padre Cesare non aveva ancora avuto modo di incontrare il confratello malato, il dottore continuava a ripetere che poteva essere contagioso e bisognava prestare la massima attenzione, adottando ogni precauzione possibile affinché il male non si diffondesse.
Venne addirittura suggerito di trasferire Alfredo nel più vicino ospedale, ma il malato per primo si era opposto fermamente, sostenendo tra i gemiti che il suo destino era nelle mani del Signore come doveva essere, e non avrebbe accettato di essere allontanato dalla sua comunità.
Evaristo aveva confessato a Cesare che nessuno dei monaci aveva avanzato obiezioni, assecondando la sua scelta e motivandola come una prova di fede davanti alle insistenze del medico, e a nulla erano valse le sue recriminazioni: « Se mi consentiste di portarlo in una struttura adeguata, probabilmente sarebbe in piedi in pochi giorni!» si lamentava senza risultato.
«Cesare.»
La voce lo riscosse dai suoi pensieri.
Padre Durante lo stava fissando. Era uno dei monaci più socievoli, e l'unico con cui fino ad ora aveva avuto modo di scambiare più di qualche parola.
Conversando con lui aveva scoperto con sollievo che nessuno era stato informato della vera causa del suo arrivo a Nibizzola, questo lo aveva reso più rilassato, e aveva cosi riacquistando un po' della serena giovialità che gli era propria.
Non si era reso conto che i canti erano conclusi, i monaci stavano già uscendo dalla chiesa per recarsi a consumare il pasto serale.
«Durante, sei rimasto qui ad aspettarmi?»
Durante aveva passato i quarant'anni, era uno dei pochi confratelli a non portare la barba ed aveva perso ormai completamente i capelli. Gli occhi azzurri erano sempre vispi, come alla ricerca di qualcosa, espressione di un fine intelletto che Cesare aveva potuto apprezzare nel corso delle loro conversazioni.
«Stasera Evaristo sarà ancora di veglia al povero Alfredo, speriamo che passi anche questa notte come le ultime tre» esordì Durante.
«Già, ma io continuo a non essere convinto. Il mio vecchio abate non ci avrebbe pensato due volte e lo avrebbe costretto a sottoporsi a delle cure più accurate, visto che la possibilità esiste, ma qui sembra che si dia più ascolto ad una mente resa folle dalla malattia piuttosto che al parere del medico».
«Mi è parso di capire che tu sia stato trasferito qui proprio per “un crollo di fede”. Considera questa una prova del Signore, assistere Alfredo nel suo travaglio potrebbe aiutarti a capire se sei in grado di ritrovare la fiducia nell’opera di nostro signore. D'altro canto è anche vero che Dio ti aiuta se Tu ti aiuti. In effetti, se anche decidessero di trasferirlo momentaneamente in ospedale dubito che questo possa peggiorare ulteriormente la sua condizione, ma è una decisione che spetta al diretto interessato. Chi siamo noi per poter imporre al nostro confratello la nostra volontà? Sappiamo forse dire cosa è meglio per lui?».
«Siamo davvero tutti nelle mani del Signore»
«Così sia»
Si avviarono fuori. L'eremo aveva un ampio cortile centrale, in cui trovavano posto una stalla e la piccola chiesa in cui ultimamente si riunivano sempre più spesso a pregare per la salute di fratello Alfredo.
“Posso solo sperare che abbiano ragione. Forse ho davvero perso la fede, ed è una cosa di cui non riesco a capacitarmi, ma non riesco a vedere oltre il fatto che c'è un malato che sta morendo in una delle nostre celle, e nessuno fa niente per aiutarlo davvero”.
Poi improvvisamente, come una fitta, gli giunse doloroso alla mente il ricordo della causa per cui si trovava lì: “In effetti, chi sono io per poter giudicare la fede altrui, io che ho contravvenuto così tanto ai principi del mio ordine da ridurmi per la vergogna a voler raggiungere il Signore compiendo il peccato supremo... No, devo essere forte, come lo ero una volta. Devo avere fede che Alfredo ce la possa fare, e che San Costante vegli su di lui. Che possa avverarsi un altro miracolo dove la forza dell’uomo non dovesse bastare a salvarlo”.
Il miracolo.
Era giunto da un giorno soltanto quando Padre Evaristo gli aveva raccontato di come un contadino sconosciuto avesse salvato dalla peste un intero villaggio.
Costante Sarachi, era questo il suo nome prima di divenire Santo. Era vissuto a Nibizzola circa cento anni prima, nel periodo in cui la peste affliggeva quelle terre.
«La storia narra che il ragazzo era stato contagiato dal nero male, preso dalla sconforto aveva scelto di abbandonare famiglia ed amici per recarsi alla ricerca di un luogo in cui morire in pace, senza rischiare di diffondere ulteriormente il morbo. Questa scelta era stata dettata anche dall'amore che provava per Giuditta, sua promessa sposa», lanciata un’occhiata al suo interlocutore per vedere se lo stava ascoltando con sufficiente interesse, poi l’abate aveva proseguito nel racconto «Quando ormai tutti si erano rassegnati alla sua morte, Costante però fece ritorno, completamente guarito, alla sua dimora. Con se portava solo una piccola ampolla piena d'acqua purissima, donatagli da un angelo per debellare il male dal suo villaggio».
Secondo la storia riportatagli dall’abate, purtroppo durante l’assenza di Costante il padre della sua amata Giuditta era stato colpito duramente dalla malattia. La disperazione della famiglia però si era tramutata in stupore e successivamente in gioia, quando Costante aveva versato poche gocce d'acqua sulla bocca dell'uomo ormai morente: fu così che avvenne il primo miracolo.
In pochi giorni l'adorato suocero si riprese del tutto, dando modo finalmente a Costante e Giuditta di sposarsi sotto la sua paterna benedizione.
In brevissimo tempo la voce del miracolo si era sparsa per tutto il villaggio, e così iniziò una vera e propria processione di bisognosi verso l'abitazione di Costante. Molte furono le persone graziate dall'acqua santa, tanto che nel villaggio non vi era quasi più traccia di ammalati.
Quando però la notizia dei miracoli iniziò a diffondersi oltre i confini di Nibizzola l'ampolla era ormai vuota. Costante decise quindi di preservarne il poco contenuto rimasto, nel caso in cui il nero male fosse tornato ad affliggere il suo villaggio, cosa che però non accadde mai.
Costante concluse la sua vita in tranquillità, assieme alla sua sposa. Prima di morire donò la sua ampolla ad un ordine di monaci eremiti, che la custodirono in un luogo sicuro, fondando qualche anno dopo l'eremo di Nibizzola, divenuto eremo di San Costante a seguito della beatificazione del contadino, richiesta a gran voce da tutto il villaggio.
“Ora la reliquia si trova qui, a due passi da me” pensò Cesare attraversando il piccolo cortile fuori dalla chiesa. I monaci l'avevano chiusa dentro l’imponente altare di marmo e solamente l'abate era in possesso della chiave in grado di aprire il piccolo antro che la custodiva.
“Forse un giorno riuscirò a vederla. Chissà, magari rimane ancora dell'acqua Santa al suo interno.” Cesare era quasi incantato dall'idea che esistesse una sostanza simile, e forse anche Alfredo sarebbe potuto guarire in breve tempo utilizzandola.
Seguito da Durante varcò il portone della sala comune dove gli altri monaci li stavano aspettando per la preghiera prima della cena.
Restavano liberi i primi due posti vicino all’ingresso, così Cesare e Durante vi si accomodarono. Accanto a loro sedevano rispettivamente Padre Raffaello e Padre Germano che, non appena ebbero terminato le preghiere, spezzarono due fette di pane e gliele porsero. Cesare accettò e per ringraziare Germano annuì insistentemente con la testa, scandendo in silenzio il labiale di «Grazie». In tutta risposta l’anziano monaco, ormai quasi completamente sordo, voltò il capo bruscamente ed iniziò a sorseggiare il suo brodo di verdure. Durante lo aveva avvertito del carattere burbero del fratello, che andava peggiorando con l’avanzare della sordità.
«Fate attenzione al brodo, è bollente» sussurrò Raffaello. Era il cuoco dell’eremo, portava una folta barba arricciata che arrivava a coprire anche parte delle orecchie, dove terminava in due ciuffi incolti di peluria grigia.
La cena si concluse nel silenzio più assoluto e i monaci si diressero ancora una volta verso la piccola chiesetta per le preghiere serali. Una volta terminate, quando oramai gli ultimi raggi del sole erano svaniti, tutti i fratelli fecero ritorno ai loro alloggi al primo piano dell’eremo, per coricarsi nelle rispettive celle.
Cesare li seguì. Entrato nella sua spoglia stanzetta, restò per qualche minuto affacciato all’unica piccola feritoia, ad ammirare il giardino, il movimento delle foglie che si intravedeva appena grazie al tenue chiarore della luna: si poteva scorgere il piccolo spazio dedicato al cimitero, in cui le salme dei fratelli si riconciliavano con il terreno. All’altro lato del giardino, erano invece appena visibili gli orti, in cui i monaci coltivavano tutti i legumi necessari per la loro tavola.

Fu improvviso.
La vide allungarsi sotto la luce lunare, diretta verso il cimitero.
Un’ombra si aggirava per il cortile, quando tutti i fratelli dovevano essere nei loro alloggi.
“Dio, prego per la tua misericordia, fa che non sia morto Alfredo”
Solitamente però venivano suonate le campane quando un lutto colpiva una comunità monastica, mentre in questo caso era evidente che il silenzio regnava sovrano.
L’ombra svanì in un angolo del cortile dove la luna non arrivava a schiarire il terreno.
Cesare rimase in attesa qualche minuto alla finestra, poi sentendo che il sonno iniziava ad annebbiargli la ragione, ringraziò Dio per la giornata appena trascorsa e si sdraiò sul suo piccolo materasso. Mentre si coricava, decise che doveva avere avuto un abbaglio causato dalla stanchezza, dopotutto l’ombra poteva essere un animale notturno che si aggirava in cerca di piccole prede, come topi che cosi numerosi si aggiravano per le vicine stalle.
“Dormi Cesare, non puoi diventare paranoico dopo solo una settimana di convivenza, domani tutto sarà nella normalità”
Prima che i fantasmi della sua storia tornassero a tormentarlo il sonno lo strappò alla realtà.

Si svegliò di soprassalto all'alba. I rintocchi delle campane, puntualissimi come al solito, segnavano l'inizio della giornata per tutto l'eremo. Cesare riallacciò il saio e si incamminò verso la chiesa per le preghiere mattutine. Una volta concluse, venne subito raggiunto da Padre Adriano:
«Buongiorno Cesare!»
«Buong-»
«Oggi abbiamo un compito molto molto importante, il tuo primo incarico!». La sua voce suonava fin troppo entusiasta.
«Bene, di qualsiasi cosa si tratti, io sarò molt-»
«Il medico ha chiesto ad Evaristo di cercare informazioni nella biblioteca, tutto quanto si possa trovare riguardo alla malattia di Alfredo, e noi gliele troveremo!»
«Benissimo, dove dobb-»
«Seguimi, seguimi!» lo incalzò.
Cesare non poté fare altro che avviarsi dietro l'iperattivo monaco. Nonostante il fisico cadente del confratello non proprio nel fiore dell'età, il suo passo era decisamente spedito. A Cesare ricordò la buffa imitazione di una marcia militare, i lunghi capelli del monaco che ondeggiavano a destra e a sinistra, rimbalzando sulle spalle ad ogni passo.
Gli occhi di Adriano si muovevano in continuazione come alla ricerca di qualcosa che il frate non riusciva mai a trovare, e Cesare si era convinto alla fine che nemmeno lui sapesse cosa cercava.
Arrivarono alla biblioteca dell'eremo, proprio mentre l'abate Evaristo stava uscendo.
«Ah bene, siete arrivati. Ero entrato a controllare che fosse tutto in ordine per la vostra ricerca. Ci auguriamo tutti che riusciate a scovare qualche annotazione su questo morbo, ne va della salvezza di Alfredo. Abbiate fede e troverete, Dio è sempre con noi, anche in questi duri momenti. Alfredo ne è la riprova, sente che in questo luogo è custodito il segreto della sua guarigione, il Signore glielo ha fatto capire».
«Se c'è anche solo un richiamo al morbo in queste pagine, lo troveremo!» Adriano era incontenibile nel suo entusiasmo, la sua voglia di fare era contagiosa.
Si misero subito al lavoro, posando sull'enorme tavolo della biblioteca varie pile di manoscritti che erano stati prodotti e accumulati sin dalla fondazione dell'eremo, circa sessant'anni prima.
Le ricerche durarono molto più di quanto entrambi i confratelli avessero potuto immaginare. Giunto il tramonto del secondo giorno di ricerche, Cesare e Adriano non erano riusciti a trovare nessun riferimento al morbo nei manoscritti redatti nei primi dieci anni di vita dell'eremo. Durante i due giorni che avevano trascorso lavorando incessantemente, le condizioni di Alfredo erano costantemente peggiorate, e il medico sbraitava sempre più forte insistendo che venisse trasferito fuori da “Questo luogo di rimbecilliti!”.
Poi, la mattina del terzo giorno di ricerche, un colpo sul tavolo interruppe bruscamente la lettura frenetica di Adriano.
«Qui! Qui c'è qualcosa!»
Cesare mostrò al compagno quello che aveva trovato. Scritti malamente da un fratello vissuto circa quarant'anni prima di loro erano riportati i medesimi sintomi che presentava Alfredo: febbre altissima, unita a crisi di spasmi muscolari involontari che costringevano l'ammalato a giorni e giorni di agonia, avevano preceduto la morte sopraggiunta dopo un'ultima violenta crisi resa fatale dall'indebolimento progressivo.
«Perfetto! Lo porto subito ad Evaristo!»
Adriano sparì di corsa dietro la porta della biblioteca portando con lui il manoscritto.
Rimasto solo Cesare decise di continuare a sfogliare i manoscritti più recenti, sperando di trovare qualche altro riferimento che potesse rivelarsi utile.
Rintracciò la data di morte del monaco stroncato dal morbo in un manoscritto che fungeva da necrologio: “Anno del decesso: 1686, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo”.
“Se avessero continuato gli studi magari adesso sapremmo cosa fare, a volte sembra che per la salvezza dell'anima si debba per forza rifiutare la salvezza terrena. Signore mio, cosa dovremmo fare? Se questo morbo si ripresentasse in futuro non sarebbe meglio studiarlo a fondo, anche sul corpo di un fratello che ci ha lasciato? Non sarebbe comunque fatto in nome Tuo? O forse è una punizione per la nostra incapacità di amarti pienamente?” Afferrò un altro tomo e ricominciò a sfogliare le pagine.
«Non può essere...» Per la sorpresa aveva parlato ad alta voce.
Anno del decesso: 1700, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Ebbe un presentimento orribile.
Continuò a leggere solo i necrologi: “Anno del decesso: 1716, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Fece un rapido conto degli anni che separavano ogni morte.
Si alzò di scatto dalla sedia.
“Devo vedere Alfredo.”

mercoledì 30 maggio 2012

NoPipe - OnTheRoad #3

Questo OnTheRoad è stato girato ieri, ma per una questione fondamentalmente riconducibile alla malasorte viene pubblicato oggi:

Tornando a casa


mercoledì 23 maggio 2012

Terza parte del racconto "La stella"

Ebbene, siamo giunti alla terza parte del nostro racconto, leggete in numerosi e commentate! La quarta parte arriverà la prossima settimana (speriamo!).


PROLOGO

Parte Terza

1730, Nibizzola, piccolo paese della campagna milanese.

La carrozza avanzava lentamente sulla strada dissestata, battuta da numerosi viaggiatori che tutti i giorni andavano e tornavano dal centro del paese.
Gli scossoni provocati dalle asperità del terreno sotto le ruote facevano continuamente sobbalzare l’unico passeggero, che malamente tentava di mantenersi composto, sistemato com’era sugli stretti e scomodi sedili, scarsamente imbottiti e rivestiti da un ormai logoro tessuto rossastro.
Passandosi una mano sul viso, l’uomo lanciò uno sguardo al cielo che si imbruniva sempre più, lasciando poco alla volta spazio alla sera.
“L'eremo sarà sicuramente chiuso ormai” pensò Padre Cesare.
Aveva ormai compiuto i trentadue anni, Padre Cesare, un uomo alto e dal fisico asciutto, con il viso adornato da una barba non ancora imbiancata dal tempo, ora portata rada a causa dei disagi riservatigli dal lungo viaggio verso la sperduta Nibizzola.
Tratto distintivo che condivideva con tutta la sua famiglia, era la folta chioma di capelli neri, sempre indomabili, tanto che fin da bambino persino sua madre aveva preso a chiamarlo “spaventapasseri”.
«Per favore, mi porti alla locanda più vicina, ormai l'eremo avrà già chiuso i portoni, e non voglio farle fare un giro a vuoto».
Il cocchiere non rispose ma si limitò a un cenno di assenso.
Probabilmente anche lui era stanco di una compagnia così taciturna come quella del frate.
Solitamente Padre Cesare non era così chiuso in sé stesso, ma dopo il fatto increscioso che lo aveva visto coinvolto, preferiva evitare di dare troppa confidenza a chiunque.
«Siamo arrivati.»
Il commento del cocchiere ruppe il corso silenzioso dei suoi pensieri e lo fece trasalire. Si forzò ad alzarsi dallo scomodo sedile, le ossa doloranti per la lunga costrizione in uno spazio cosi angusto, e si affrettò a scendere, barcollando, centrando in pieno una pozzanghera di fango col piede sinistro. Non portava altro che un leggero mantello sopra al saio, e calzava i leggeri sandali di pelle del suo ordine. Il contatto con l’acqua gelida e fangosa, il vento pungente che lo investì mentre recuperava il suo scarno bagaglio dalla carrozza, gli provocarono uno spasmo involontario, un brivido gli corse lungo la schiena e lo fece saltellare emettendo un versetto contrariato poco degno del suo alto ufficio.
Il viaggio era stato pagato interamente dal monastero da cui proveniva, inclusa anche una piccola riserva di denaro di cui era stato dotato, da usare per gli eventuali imprevisti in cui sarebbe potuto incorrere lungo la strada per l’eremo di Nibizzola.
Si congedò con poche parole dal cocchiere benedicendolo e si diresse immediatamente al piccolo edificio che fungeva da locanda del paese.
Il freddo autunnale si faceva sentire, il cielo non prometteva nulla di buono con il suo grigiore compatto, così Padre Cesare si affrettò ad entrare. Varcata la soglia venne investito da un rassicurante tepore, che lo fece sentire subito meglio.
La stanza in cui era entrato non era certo lussuosa, illuminata malamente da due miseri candelabri che pendevano da un grigio soffitto di vecchie assi di legno, la penombra dava al tutto un'aria quasi spettrale.
Un bancone era stato sistemato di fronte all'entrata, in modo che il proprietario potesse sempre osservare l'ingresso e gli avventori che lo attraversavano, ma la stanza fungeva anche da sala comune e vi si ammassavano un paio tavoli evidentemente attrezzati per consumare i pasti. Un leggero odore di stufato si spandeva dalla cucina, collocata in una stanza appena sul retro.
Il proprietario si rivelò essere un'enorme donna, affaccendata con piglio caparbio sul bancone, ne strofinava il legno con uno straccio reso quasi nero dall’uso.
Padre Cesare si avvicinò, appena lo vide la locandiera si affrettò a gettare lo straccio in angolo. Lo squadrò con la sua enorme faccia, sotto la quale facevano capolino ben tre menti di carne superflua.
«Buona sera...» osservando il saio da monaco che Cesare portava sotto il mantello si affrettò a concludere la frase «...padre.»
«Buona sera» rispose lui, aggiungendo «Temo che dovrò passare la notte qui, l'eremo dovrebbe già aver serrato le sue porte a quest'ora, giusto?»
La donna si girò, lanciò un urlo con quella sua voce profonda, facendo trasalire gli unici due avventori intenti a consumare il loro pasto silenzioso ai tavoli della sala. «Tonio! Scendi che ce n'è un altro!».
Non trascorse che un istante dall’urlo della locandiera, che si affacciò, da una rampa di scalini situata in fondo alla stanza, un pallido ragazzino dall’aria annoiata.
Padre Cesare lo osservò arrivare, strascicando i piedi con passo incerto, sollevare il suo fagotto e portarlo al piano di sopra.
Una volta che il ragazzino fu sparito al piano superiore, Cesare si rivolse alla donna:
«Spero che questo basti anche per un piatto del suo stufato, gentile signora, il viaggio è stato lungo e faticoso.»  prese dalle tasche tutto il denaro che aveva e lo rovesciò sul bancone.
La locandiera raccolse con attenzione tutte le monete, una per una, mentre sottovoce contava.
Alla fine sentenziò: «Basta eccome. Tenga il resto però.»
Cesare rifiutò con garbo «A me non servono, li usi piuttosto per il suo bambino.»
«Grazie allora» rispose lei, e senza troppe cerimonie si cacciò tutto in tasca, poi continuò «Se vuole sedersi a uno dei tavoli, tra poco le porto la cena, padre».
Il monaco si voltò, lanciò uno sguardo nella sala per scegliere dove sedersi, trovando con disappunto che gli unici due tavoli erano occupati, ognuno da un solo avventore. Evidentemente entrambi erano poco in vena di reciproca compagnia.
Uno era un uomo robusto, tozzo e dall'aspetto decisamente poco invitante: indossava una camicia con larghe macchie di vino sul davanti ed enormi aloni di sudore sotto le ascelle. Tutto il corpo, a partire dalla pelle fino alle unghie, era costellato da incrostazioni di sporco nerastro. Stava seduto storto con una gamba penzolante e guardava con una punta di disprezzo Padre Cesare. Quando incrociarono lo sguardo il tizio sorrise beffardo mostrando una fila di denti in legno oramai marcito. Una cicatrice gli deturpava la gola, e formava in mezzo alla barba incolta un secondo, malsano sorriso.
L'altro individuo invece si presentava in maniera completamente diversa: già la postura composta faceva intuire che si trattasse di una persona di rango sociale di tutt’altra risma rispetto al primo avventore.
Portava una giacca con sottilissimi intarsi d'argento sulle cuciture, sotto la quale un panciotto ben riempito faceva capolino, anche questo coordinato con la giacca.
Padre Cesare non ebbe dubbi e si avvicinò a quest'ultimo, prendendo posto di fronte a lui.
Mentre spostava la sedia per accomodarsi, notò quello che sembrava un bagaglio lasciato per terra, una borsa.
“Forse non si ferma per la notte” pensò Cesare.
«Buona sera padre» lo salutò il distinto signore sollevando lo sguardo dal suo piatto di stufato.
Padre Cesare lo guardò in faccia: pareva abbastanza anziano, i pochi capelli ormai ingrigiti dall'età, e portava le basette perfettamente rasate. Gli occhi apparivano stanchi ma sereni, segno di una dura giornata di lavoro ormai giunta al termine.
«Buona sera» rispose Padre Cesare.
«Come mai fuori dall'eremo? Mi avevate detto che avete smesso per ora con il commercio di spezie e -»
Cesare lo interruppe subito «Questo perché io non sono del monastero, o meglio, ne farò parte da domani non appena apriranno i portoni».
«Ah, capisco. Beh, deve scusare la mia curiosità ma sa, normalmente da quel posto entrano ed escono pochissime persone; io sono fra quelle, in quanto medico. La cosa più assurda di questi tempi è che si ammalano più i monaci che vivono isolati che la gente comune del paese. Qui negli ultimi anni le malattie più gravi che ho visto sono i soliti raffreddori invernali, nulla di più. Sembra quasi che il miracolo che dicono sia avvenuto tanti anni fa continui ancora imperterrito la sua opera benefica, ma io non credo in queste cose. Coincidenze, nulla di più. Senza offesa ovviamente, padre.»
Padre Cesare non aveva nessuna intenzione di perdersi in chiacchiere con uno sconosciuto, per di più con qualcuno che poteva venire in breve tempo a conoscenza della causa per cui era stato trasferito a Nibizzola. E’ noto quanto le voci viaggino in fretta anche nei monasteri isolati.
«Dio lascia sempre liberi di scegliere, per cui non mi reca assolutamente offesa.»
Lo stufato venne servito dal ragazzino, che portò i piatti al tavolo con il suo passo pigro e strascicato.
Cesare sperava di poter consumare il pasto in totale tranquillità e silenzio: purtroppo il suo commensale la pensava diversamente.
Attese infatti che il monaco finisse le preghiere prima della cena, e poi partì con le domande:
«Allora padre, cosa la porta qui a Nibizzola?»
“Nulla che a te possa interessare, visto che domani probabilmente ti dimenticherai di me non appena riprenderai a visitare persone, medico. A meno che tu non scopra la verità. In quel caso parlerai di me a tutti quelli che incontrerai, probabilmente. E' sempre così.”
Il monaco disse invece: «La Fede è una cosa che va coltivata e deve sempre crescere nell'arco della vita, poiché essa ci permette di arrivare ad una comprensione più piena dell'esistenza avvicinandoci al Signore. Ho sentito che la mia fede stava iniziando a vacillare, per questo ho deciso di venire ad isolarmi nell'eremo insieme ai miei santi fratelli. E da domani vivrò lì.»
Il medico rimase un attimo imbambolato fissando Padre Cesare. Poi si riscosse e rispose «Ah, capisco. Quindi anche a voi di tanto in tanto viene a mancare la fede eh? Magari potessimo, noi persone normali, operare delle soluzioni tanto radicali nelle nostre vite, prendere e andare come ci pare! Ma il lavoro è lavoro, io cerco di fare il bene fisico delle persone e lei quello... quello...»
«Quello spirituale» concluse Padre Cesare accennando a un sorriso.
«Spirituale, giusto, giusto.»
Conclusero la cena in silenzio, con grande sollievo di Cesare.
Quando i piatti furono vuoti, il medico si alzò e recuperò la sua borsa da terra, poi si rivolse un'ultima volta al monaco: «Beh, s'è fatto tardi. Se destino vuole ci rivedremo all'eremo, sperando che quel fraticello riesca a superare la notte».
Padre Cesare si alzò dopo che il medico fu uscito dalla locanda, dirigendosi verso il bancone ma trovandolo vuoto.
«Le stanze sono su per gli scalini, la sua è la prima sulla sinistra, se quella polenta di mia moglie si sbriga a sistemarla.»
A parlare era stato il tizio dall’aria poco raccomandabile seduto all'altro tavolo, che si alzò e andò a sistemarsi dietro il bancone. Cesare cercò di cancellare l’espressione stupita dal suo volto e subito si avviò verso le scale biascicando un «Oh, grazie».
Arrivato al piano superiore trovò la stanza sulla sinistra con la porta socchiusa.
Un leggero odore di muffa permeava tutto l’interno della camera, che si presentava assai spoglia persino per le abitudini di un monaco.
La locandiera stava riassestando il letto, composto da poche assi e un sottile materasso, che probabilmente sarebbe servito a poco nel rendere più comodo il riposo.
Per riscaldare l'ambiente era stato collocato appena accanto alla porta un piccolo vaso con dentro delle braci ardenti; Cesare sperò che bastassero per tutta la notte.
La donna si congedò e prima che si chiudesse alle spalle la porta lui la ringraziò benedicendo lei e il figlio.
Era esausto, le fatiche del viaggio lo avevano stremato, così iniziò subito le preghiere notturne ultimandole forse troppo rapidamente, e si coricò sul logoro materasso, trovandolo persino più comodo di quel che l’apparenza suggeriva.
Non sapeva che tipo di accoglienza avrebbe trovato l'indomani all'eremo.
Temeva che tutti lo trattassero come una specie di appestato, dopo quello che gli era successo, ma d'altronde non sapeva nemmeno cosa era stato riferito della sua storia nella lettera che annunciava il suo arrivo.
Alla fine anche pensare gli risultò faticoso, così scivolò senza accorgersene in un sonno profondo e senza sogni.

Si svegliò alle prime luci all'alba. La stanza era diventata molto fredda, le braci completamente spente, Cesare decise quindi di alzarsi subito e si vestì quanto più rapidamente poté, gli arti ancora intorpiditi dal sonno.
Riassettato il suo bagaglio, uscì nel corridoio e scese le scale, trovando il rozzo oste che stava pulendo i tavoli dove avevano cenato la sera prima. «Buongiorno, dormito bene padre?»
«Splendidamente. Ora dovete scusarmi ma preferirei raggiungere subito l'eremo. Che Dio vi benedica, e andate in pace».
L'uomo accennò un segno della croce «Grazie padre» poi aggiunse con un ghigno «e stia attento in mezzo a quei rinchiusi, sia mai che la solitudine gli abbia dato alla testa».
Padre Cesare non rispose, si avviò con un cenno di saluto alla porta e poi con passo deciso iniziò la lunga camminata prima attraverso e poi fuori dal paese, verso l'eremo.
Passando accanto alla piazza, notò una grossa statua situata proprio al centro: rappresentava due persone. Incuriosito si avvicinò per osservarla meglio.
In piedi, si ergeva alta la figura di un uomo nel fiore degli anni, versava da un'ampolla stretta nella mano destra quella che pareva dell'acqua sulla bocca del secondo personaggio, inginocchiato in atto di supplica, il volto bloccato in una perenne disperata preghiera.
Padre Cesare lesse l'iscrizione posta alla base:
“Qui visse San Costante Sarachi da Nibizzola, colui che mondò questo paese dal nero male che tanti  ha portato via. L'acqua santa con cui ripulì dalle malattie e dai peccati questa gente è custodita nell'eremo a lui dedicato”.
Padre Cesare alzò lo sguardo: oltre la statua, appena fuori dalle porte del paese, si scorgevano in lontananza le mura della sua nuova casa, l'Eremo di San Costante.

martedì 22 maggio 2012

NoPipe Reports #1

21.05.2012 - Ore 16.24,
 in via Molino si trovava il nopipe al completo di ritorno verso casa in condizioni fisiche e mentali imbarazzanti  dopo una giornata di studio assiduo in centro a Ravenna. I tre si accingevano ad uscire dal parcheggio con non poca fatica dal momento che il suddetto parcheggio era stato occupato nei modi più fantasiosi da parte di ""distratti"" automobilisti. Ksinin infatti si era appena proposto di rimanere giù dalla macchina per dare indicazioni a Gambero che quel giorno aveva preso su l'auto (come avete potuto notare nel NoPipe - OnTheRoad #2), e in quel momento accadeva l'irreparabile: un boato sconvolgeva l'aria intorno a loro, subito sgomento e terrore galoppanti si insinuavano nelle membra dei tre già provati dagli ultimi giorni di attentati e terremoti. Per un attimo non si capiva nemmeno cosa fosse successo, poi diveniva chiaro: il lunotto posteriore di un auto adiacente loro era esploso andando in frantumi:





Il magicamente magico trio, pensando inizialmente che si trattasse di un atto vandalico, si adoperava per cercare un eventuale teppista nelle vicinanze mentre diveniva sempre più chiara l'amara verità, ovvero che il vetro avesse semplicemente deciso da un momento all'altro di smettere di vivere eseguendo un Harakiri di proporzioni bibliche. Nel frattempo altre persone incuriosite si avvicinavano alla vettura cercando di capire le dinamiche che hanno portato al tragico epilogo del vetro e intanto uno di loro chiamava la Polizia Municipale per informare i custodi dell'ordine pubblico del sinistro. 
Il NoPipe WorkGroup avrebbe atteso volentieri (o quasi) l'arrivo delle forze dell'ordine, ma dopo una buona mezzora di se e di ma, decideva di tornare a casa pago d'aver in qualche modo contribuito alla soluzione del problema. 
Siccome la macchina in questione era clamorosamente in divieto di sosta, non si sa se all'arrivo della Polizia gli sia stata appiccicata anche una multina, ma di certo se cosi fosse ci si immagina lo sconforto totale del proprietario.

NoPipe Reports, Ravenna.