giovedì 31 maggio 2012

Quarta parte del racconto "La stella"

Dopo varie fatiche ecco anche la quarta parte del nostro racconto: godetevela e commentate come sempre! Grazie come sempre alla nostra collaboratrice Sara per il suo lavoro di editing.

Enjoy!


PROLOGO

Quarta parte

Il canto dei monaci risuonava in tutta la chiesa come una sola voce, carica di preghiera.
Padre Cesare non partecipava al coro, era entrato nella comunità da troppo poco tempo e preferiva mantenersi in disparte.
L'abate, Padre Evaristo, dirigeva i monaci dall’alto del suo scranno con gesti ampi e armoniosi, come se stesse accarezzando le corde di uno strumento musicale.
Padre Evaristo era abate ormai da qualche tempo, uomo severo, di robusta corporatura per non dire in carne, cosa inusuale vista la ferrea dieta a base di legumi bolliti alla quale ogni monaco doveva attenersi, portava una lunga barba a punta che arrivava fin oltre la cinta del saio; era solito fissarla proprio con la cinta per evitare che questa lo impacciasse nei movimenti, sopratutto quando doveva dirigere il coro.
Padre Cesare lo osservava rapito. Evaristo teneva gli occhi chiusi, preso da una muta preghiera che veniva resa udibile dal coro, le voci che si alternavano in una perfetta melodia altalenante seguendo ogni minimo movimento delle sue mani.
“Ci vorranno mesi prima che riesca a cantare così anch'io” pensò fra sé e sé Cesare.
Nel monastero da cui proveniva, a cantare nel coro era solo una parte dei suoi confratelli, il ristretto gruppo dei conversi, mentre tutti gli altri ne erano dispensati sulla base delle diverse attività a cui potevano essere addetti.
Padre Cesare sapeva di non aver mai posseduto una particolare attitudine per il canto, ma nell'eremo di San Costante vivevano solo sedici monaci, lui compreso, perciò tutti avevano il dovere di partecipare al coro.
In quel momento erano quindici i monaci nella piccola chiesa dell'eremo.
L'assente era Padre Alfredo, un giovane frate, di non più di una ventina d'anni, costretto a letto ormai da giorni da un morbo sconosciuto, dal quale pareva non riuscire a guarire.
Il medico che aveva incontrato alla locanda si presentava all’eremo ogni due o al massimo tre giorni, per sincerarsi delle condizioni di Alfredo. Dal suo arrivo Padre Cesare non aveva ancora avuto modo di incontrare il confratello malato, il dottore continuava a ripetere che poteva essere contagioso e bisognava prestare la massima attenzione, adottando ogni precauzione possibile affinché il male non si diffondesse.
Venne addirittura suggerito di trasferire Alfredo nel più vicino ospedale, ma il malato per primo si era opposto fermamente, sostenendo tra i gemiti che il suo destino era nelle mani del Signore come doveva essere, e non avrebbe accettato di essere allontanato dalla sua comunità.
Evaristo aveva confessato a Cesare che nessuno dei monaci aveva avanzato obiezioni, assecondando la sua scelta e motivandola come una prova di fede davanti alle insistenze del medico, e a nulla erano valse le sue recriminazioni: « Se mi consentiste di portarlo in una struttura adeguata, probabilmente sarebbe in piedi in pochi giorni!» si lamentava senza risultato.
«Cesare.»
La voce lo riscosse dai suoi pensieri.
Padre Durante lo stava fissando. Era uno dei monaci più socievoli, e l'unico con cui fino ad ora aveva avuto modo di scambiare più di qualche parola.
Conversando con lui aveva scoperto con sollievo che nessuno era stato informato della vera causa del suo arrivo a Nibizzola, questo lo aveva reso più rilassato, e aveva cosi riacquistando un po' della serena giovialità che gli era propria.
Non si era reso conto che i canti erano conclusi, i monaci stavano già uscendo dalla chiesa per recarsi a consumare il pasto serale.
«Durante, sei rimasto qui ad aspettarmi?»
Durante aveva passato i quarant'anni, era uno dei pochi confratelli a non portare la barba ed aveva perso ormai completamente i capelli. Gli occhi azzurri erano sempre vispi, come alla ricerca di qualcosa, espressione di un fine intelletto che Cesare aveva potuto apprezzare nel corso delle loro conversazioni.
«Stasera Evaristo sarà ancora di veglia al povero Alfredo, speriamo che passi anche questa notte come le ultime tre» esordì Durante.
«Già, ma io continuo a non essere convinto. Il mio vecchio abate non ci avrebbe pensato due volte e lo avrebbe costretto a sottoporsi a delle cure più accurate, visto che la possibilità esiste, ma qui sembra che si dia più ascolto ad una mente resa folle dalla malattia piuttosto che al parere del medico».
«Mi è parso di capire che tu sia stato trasferito qui proprio per “un crollo di fede”. Considera questa una prova del Signore, assistere Alfredo nel suo travaglio potrebbe aiutarti a capire se sei in grado di ritrovare la fiducia nell’opera di nostro signore. D'altro canto è anche vero che Dio ti aiuta se Tu ti aiuti. In effetti, se anche decidessero di trasferirlo momentaneamente in ospedale dubito che questo possa peggiorare ulteriormente la sua condizione, ma è una decisione che spetta al diretto interessato. Chi siamo noi per poter imporre al nostro confratello la nostra volontà? Sappiamo forse dire cosa è meglio per lui?».
«Siamo davvero tutti nelle mani del Signore»
«Così sia»
Si avviarono fuori. L'eremo aveva un ampio cortile centrale, in cui trovavano posto una stalla e la piccola chiesa in cui ultimamente si riunivano sempre più spesso a pregare per la salute di fratello Alfredo.
“Posso solo sperare che abbiano ragione. Forse ho davvero perso la fede, ed è una cosa di cui non riesco a capacitarmi, ma non riesco a vedere oltre il fatto che c'è un malato che sta morendo in una delle nostre celle, e nessuno fa niente per aiutarlo davvero”.
Poi improvvisamente, come una fitta, gli giunse doloroso alla mente il ricordo della causa per cui si trovava lì: “In effetti, chi sono io per poter giudicare la fede altrui, io che ho contravvenuto così tanto ai principi del mio ordine da ridurmi per la vergogna a voler raggiungere il Signore compiendo il peccato supremo... No, devo essere forte, come lo ero una volta. Devo avere fede che Alfredo ce la possa fare, e che San Costante vegli su di lui. Che possa avverarsi un altro miracolo dove la forza dell’uomo non dovesse bastare a salvarlo”.
Il miracolo.
Era giunto da un giorno soltanto quando Padre Evaristo gli aveva raccontato di come un contadino sconosciuto avesse salvato dalla peste un intero villaggio.
Costante Sarachi, era questo il suo nome prima di divenire Santo. Era vissuto a Nibizzola circa cento anni prima, nel periodo in cui la peste affliggeva quelle terre.
«La storia narra che il ragazzo era stato contagiato dal nero male, preso dalla sconforto aveva scelto di abbandonare famiglia ed amici per recarsi alla ricerca di un luogo in cui morire in pace, senza rischiare di diffondere ulteriormente il morbo. Questa scelta era stata dettata anche dall'amore che provava per Giuditta, sua promessa sposa», lanciata un’occhiata al suo interlocutore per vedere se lo stava ascoltando con sufficiente interesse, poi l’abate aveva proseguito nel racconto «Quando ormai tutti si erano rassegnati alla sua morte, Costante però fece ritorno, completamente guarito, alla sua dimora. Con se portava solo una piccola ampolla piena d'acqua purissima, donatagli da un angelo per debellare il male dal suo villaggio».
Secondo la storia riportatagli dall’abate, purtroppo durante l’assenza di Costante il padre della sua amata Giuditta era stato colpito duramente dalla malattia. La disperazione della famiglia però si era tramutata in stupore e successivamente in gioia, quando Costante aveva versato poche gocce d'acqua sulla bocca dell'uomo ormai morente: fu così che avvenne il primo miracolo.
In pochi giorni l'adorato suocero si riprese del tutto, dando modo finalmente a Costante e Giuditta di sposarsi sotto la sua paterna benedizione.
In brevissimo tempo la voce del miracolo si era sparsa per tutto il villaggio, e così iniziò una vera e propria processione di bisognosi verso l'abitazione di Costante. Molte furono le persone graziate dall'acqua santa, tanto che nel villaggio non vi era quasi più traccia di ammalati.
Quando però la notizia dei miracoli iniziò a diffondersi oltre i confini di Nibizzola l'ampolla era ormai vuota. Costante decise quindi di preservarne il poco contenuto rimasto, nel caso in cui il nero male fosse tornato ad affliggere il suo villaggio, cosa che però non accadde mai.
Costante concluse la sua vita in tranquillità, assieme alla sua sposa. Prima di morire donò la sua ampolla ad un ordine di monaci eremiti, che la custodirono in un luogo sicuro, fondando qualche anno dopo l'eremo di Nibizzola, divenuto eremo di San Costante a seguito della beatificazione del contadino, richiesta a gran voce da tutto il villaggio.
“Ora la reliquia si trova qui, a due passi da me” pensò Cesare attraversando il piccolo cortile fuori dalla chiesa. I monaci l'avevano chiusa dentro l’imponente altare di marmo e solamente l'abate era in possesso della chiave in grado di aprire il piccolo antro che la custodiva.
“Forse un giorno riuscirò a vederla. Chissà, magari rimane ancora dell'acqua Santa al suo interno.” Cesare era quasi incantato dall'idea che esistesse una sostanza simile, e forse anche Alfredo sarebbe potuto guarire in breve tempo utilizzandola.
Seguito da Durante varcò il portone della sala comune dove gli altri monaci li stavano aspettando per la preghiera prima della cena.
Restavano liberi i primi due posti vicino all’ingresso, così Cesare e Durante vi si accomodarono. Accanto a loro sedevano rispettivamente Padre Raffaello e Padre Germano che, non appena ebbero terminato le preghiere, spezzarono due fette di pane e gliele porsero. Cesare accettò e per ringraziare Germano annuì insistentemente con la testa, scandendo in silenzio il labiale di «Grazie». In tutta risposta l’anziano monaco, ormai quasi completamente sordo, voltò il capo bruscamente ed iniziò a sorseggiare il suo brodo di verdure. Durante lo aveva avvertito del carattere burbero del fratello, che andava peggiorando con l’avanzare della sordità.
«Fate attenzione al brodo, è bollente» sussurrò Raffaello. Era il cuoco dell’eremo, portava una folta barba arricciata che arrivava a coprire anche parte delle orecchie, dove terminava in due ciuffi incolti di peluria grigia.
La cena si concluse nel silenzio più assoluto e i monaci si diressero ancora una volta verso la piccola chiesetta per le preghiere serali. Una volta terminate, quando oramai gli ultimi raggi del sole erano svaniti, tutti i fratelli fecero ritorno ai loro alloggi al primo piano dell’eremo, per coricarsi nelle rispettive celle.
Cesare li seguì. Entrato nella sua spoglia stanzetta, restò per qualche minuto affacciato all’unica piccola feritoia, ad ammirare il giardino, il movimento delle foglie che si intravedeva appena grazie al tenue chiarore della luna: si poteva scorgere il piccolo spazio dedicato al cimitero, in cui le salme dei fratelli si riconciliavano con il terreno. All’altro lato del giardino, erano invece appena visibili gli orti, in cui i monaci coltivavano tutti i legumi necessari per la loro tavola.

Fu improvviso.
La vide allungarsi sotto la luce lunare, diretta verso il cimitero.
Un’ombra si aggirava per il cortile, quando tutti i fratelli dovevano essere nei loro alloggi.
“Dio, prego per la tua misericordia, fa che non sia morto Alfredo”
Solitamente però venivano suonate le campane quando un lutto colpiva una comunità monastica, mentre in questo caso era evidente che il silenzio regnava sovrano.
L’ombra svanì in un angolo del cortile dove la luna non arrivava a schiarire il terreno.
Cesare rimase in attesa qualche minuto alla finestra, poi sentendo che il sonno iniziava ad annebbiargli la ragione, ringraziò Dio per la giornata appena trascorsa e si sdraiò sul suo piccolo materasso. Mentre si coricava, decise che doveva avere avuto un abbaglio causato dalla stanchezza, dopotutto l’ombra poteva essere un animale notturno che si aggirava in cerca di piccole prede, come topi che cosi numerosi si aggiravano per le vicine stalle.
“Dormi Cesare, non puoi diventare paranoico dopo solo una settimana di convivenza, domani tutto sarà nella normalità”
Prima che i fantasmi della sua storia tornassero a tormentarlo il sonno lo strappò alla realtà.

Si svegliò di soprassalto all'alba. I rintocchi delle campane, puntualissimi come al solito, segnavano l'inizio della giornata per tutto l'eremo. Cesare riallacciò il saio e si incamminò verso la chiesa per le preghiere mattutine. Una volta concluse, venne subito raggiunto da Padre Adriano:
«Buongiorno Cesare!»
«Buong-»
«Oggi abbiamo un compito molto molto importante, il tuo primo incarico!». La sua voce suonava fin troppo entusiasta.
«Bene, di qualsiasi cosa si tratti, io sarò molt-»
«Il medico ha chiesto ad Evaristo di cercare informazioni nella biblioteca, tutto quanto si possa trovare riguardo alla malattia di Alfredo, e noi gliele troveremo!»
«Benissimo, dove dobb-»
«Seguimi, seguimi!» lo incalzò.
Cesare non poté fare altro che avviarsi dietro l'iperattivo monaco. Nonostante il fisico cadente del confratello non proprio nel fiore dell'età, il suo passo era decisamente spedito. A Cesare ricordò la buffa imitazione di una marcia militare, i lunghi capelli del monaco che ondeggiavano a destra e a sinistra, rimbalzando sulle spalle ad ogni passo.
Gli occhi di Adriano si muovevano in continuazione come alla ricerca di qualcosa che il frate non riusciva mai a trovare, e Cesare si era convinto alla fine che nemmeno lui sapesse cosa cercava.
Arrivarono alla biblioteca dell'eremo, proprio mentre l'abate Evaristo stava uscendo.
«Ah bene, siete arrivati. Ero entrato a controllare che fosse tutto in ordine per la vostra ricerca. Ci auguriamo tutti che riusciate a scovare qualche annotazione su questo morbo, ne va della salvezza di Alfredo. Abbiate fede e troverete, Dio è sempre con noi, anche in questi duri momenti. Alfredo ne è la riprova, sente che in questo luogo è custodito il segreto della sua guarigione, il Signore glielo ha fatto capire».
«Se c'è anche solo un richiamo al morbo in queste pagine, lo troveremo!» Adriano era incontenibile nel suo entusiasmo, la sua voglia di fare era contagiosa.
Si misero subito al lavoro, posando sull'enorme tavolo della biblioteca varie pile di manoscritti che erano stati prodotti e accumulati sin dalla fondazione dell'eremo, circa sessant'anni prima.
Le ricerche durarono molto più di quanto entrambi i confratelli avessero potuto immaginare. Giunto il tramonto del secondo giorno di ricerche, Cesare e Adriano non erano riusciti a trovare nessun riferimento al morbo nei manoscritti redatti nei primi dieci anni di vita dell'eremo. Durante i due giorni che avevano trascorso lavorando incessantemente, le condizioni di Alfredo erano costantemente peggiorate, e il medico sbraitava sempre più forte insistendo che venisse trasferito fuori da “Questo luogo di rimbecilliti!”.
Poi, la mattina del terzo giorno di ricerche, un colpo sul tavolo interruppe bruscamente la lettura frenetica di Adriano.
«Qui! Qui c'è qualcosa!»
Cesare mostrò al compagno quello che aveva trovato. Scritti malamente da un fratello vissuto circa quarant'anni prima di loro erano riportati i medesimi sintomi che presentava Alfredo: febbre altissima, unita a crisi di spasmi muscolari involontari che costringevano l'ammalato a giorni e giorni di agonia, avevano preceduto la morte sopraggiunta dopo un'ultima violenta crisi resa fatale dall'indebolimento progressivo.
«Perfetto! Lo porto subito ad Evaristo!»
Adriano sparì di corsa dietro la porta della biblioteca portando con lui il manoscritto.
Rimasto solo Cesare decise di continuare a sfogliare i manoscritti più recenti, sperando di trovare qualche altro riferimento che potesse rivelarsi utile.
Rintracciò la data di morte del monaco stroncato dal morbo in un manoscritto che fungeva da necrologio: “Anno del decesso: 1686, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo”.
“Se avessero continuato gli studi magari adesso sapremmo cosa fare, a volte sembra che per la salvezza dell'anima si debba per forza rifiutare la salvezza terrena. Signore mio, cosa dovremmo fare? Se questo morbo si ripresentasse in futuro non sarebbe meglio studiarlo a fondo, anche sul corpo di un fratello che ci ha lasciato? Non sarebbe comunque fatto in nome Tuo? O forse è una punizione per la nostra incapacità di amarti pienamente?” Afferrò un altro tomo e ricominciò a sfogliare le pagine.
«Non può essere...» Per la sorpresa aveva parlato ad alta voce.
Anno del decesso: 1700, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Ebbe un presentimento orribile.
Continuò a leggere solo i necrologi: “Anno del decesso: 1716, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Fece un rapido conto degli anni che separavano ogni morte.
Si alzò di scatto dalla sedia.
“Devo vedere Alfredo.”

mercoledì 30 maggio 2012

NoPipe - OnTheRoad #3

Questo OnTheRoad è stato girato ieri, ma per una questione fondamentalmente riconducibile alla malasorte viene pubblicato oggi:

Tornando a casa


lunedì 28 maggio 2012

NoPipe Reports #2

28.05.12, ore 11.35
Notizia Flash:
Incredibile ma vero, il NoPipe si aggirava per via Cavour nell'atteggiamento di chi sta facendo shopping quando ancora una volta si imbatteva in quella che a tutti gli effetti era una scena del crimine.
La vittima in questione questa volta era una vetrata intera, per la precisione una vetrata del negozio Perris, famosa rivendita di occhiali di Ravenna:



 zoom:

Ancora non si conoscono le cause di ciò, ma sono facilmente imputabili ad un atto vandalico o ad un ciclista particolarmente ubriaco. Il NoPipe si prende in carico la responsabilità di indagare riguardo l'accaduto, riflettendo con inquietudine sul fatto che è già il secondo vetro in pochi giorni ad andare a pezzi.

2012 is coming.

venerdì 25 maggio 2012

Iniziano i racconti di Tenebra...

Ebbene si, non contento del racconto "La stella" che sto scrivendo con Gambero, voglio rendervi partecipi di tutta la produzione narrativa che è stata creata durante il gioco di narrazione Mondo di Tenebra, che sto giocando da molto tempo insieme ad un gruppo foltissimo di giocatori davvero prolifici per quanto riguarda lo scrivere.
Potete trovare adesso un link in alto a sinistra qui sul blog che rimanda alla pagina dedicata proprio al gioco, in cui inseriremo man mano i racconti scritti da tutta la troupe di giocatori, vi assicuro che ci saranno delle vere chicche per chi ama leggere!

mercoledì 23 maggio 2012

Terza parte del racconto "La stella"

Ebbene, siamo giunti alla terza parte del nostro racconto, leggete in numerosi e commentate! La quarta parte arriverà la prossima settimana (speriamo!).


PROLOGO

Parte Terza

1730, Nibizzola, piccolo paese della campagna milanese.

La carrozza avanzava lentamente sulla strada dissestata, battuta da numerosi viaggiatori che tutti i giorni andavano e tornavano dal centro del paese.
Gli scossoni provocati dalle asperità del terreno sotto le ruote facevano continuamente sobbalzare l’unico passeggero, che malamente tentava di mantenersi composto, sistemato com’era sugli stretti e scomodi sedili, scarsamente imbottiti e rivestiti da un ormai logoro tessuto rossastro.
Passandosi una mano sul viso, l’uomo lanciò uno sguardo al cielo che si imbruniva sempre più, lasciando poco alla volta spazio alla sera.
“L'eremo sarà sicuramente chiuso ormai” pensò Padre Cesare.
Aveva ormai compiuto i trentadue anni, Padre Cesare, un uomo alto e dal fisico asciutto, con il viso adornato da una barba non ancora imbiancata dal tempo, ora portata rada a causa dei disagi riservatigli dal lungo viaggio verso la sperduta Nibizzola.
Tratto distintivo che condivideva con tutta la sua famiglia, era la folta chioma di capelli neri, sempre indomabili, tanto che fin da bambino persino sua madre aveva preso a chiamarlo “spaventapasseri”.
«Per favore, mi porti alla locanda più vicina, ormai l'eremo avrà già chiuso i portoni, e non voglio farle fare un giro a vuoto».
Il cocchiere non rispose ma si limitò a un cenno di assenso.
Probabilmente anche lui era stanco di una compagnia così taciturna come quella del frate.
Solitamente Padre Cesare non era così chiuso in sé stesso, ma dopo il fatto increscioso che lo aveva visto coinvolto, preferiva evitare di dare troppa confidenza a chiunque.
«Siamo arrivati.»
Il commento del cocchiere ruppe il corso silenzioso dei suoi pensieri e lo fece trasalire. Si forzò ad alzarsi dallo scomodo sedile, le ossa doloranti per la lunga costrizione in uno spazio cosi angusto, e si affrettò a scendere, barcollando, centrando in pieno una pozzanghera di fango col piede sinistro. Non portava altro che un leggero mantello sopra al saio, e calzava i leggeri sandali di pelle del suo ordine. Il contatto con l’acqua gelida e fangosa, il vento pungente che lo investì mentre recuperava il suo scarno bagaglio dalla carrozza, gli provocarono uno spasmo involontario, un brivido gli corse lungo la schiena e lo fece saltellare emettendo un versetto contrariato poco degno del suo alto ufficio.
Il viaggio era stato pagato interamente dal monastero da cui proveniva, inclusa anche una piccola riserva di denaro di cui era stato dotato, da usare per gli eventuali imprevisti in cui sarebbe potuto incorrere lungo la strada per l’eremo di Nibizzola.
Si congedò con poche parole dal cocchiere benedicendolo e si diresse immediatamente al piccolo edificio che fungeva da locanda del paese.
Il freddo autunnale si faceva sentire, il cielo non prometteva nulla di buono con il suo grigiore compatto, così Padre Cesare si affrettò ad entrare. Varcata la soglia venne investito da un rassicurante tepore, che lo fece sentire subito meglio.
La stanza in cui era entrato non era certo lussuosa, illuminata malamente da due miseri candelabri che pendevano da un grigio soffitto di vecchie assi di legno, la penombra dava al tutto un'aria quasi spettrale.
Un bancone era stato sistemato di fronte all'entrata, in modo che il proprietario potesse sempre osservare l'ingresso e gli avventori che lo attraversavano, ma la stanza fungeva anche da sala comune e vi si ammassavano un paio tavoli evidentemente attrezzati per consumare i pasti. Un leggero odore di stufato si spandeva dalla cucina, collocata in una stanza appena sul retro.
Il proprietario si rivelò essere un'enorme donna, affaccendata con piglio caparbio sul bancone, ne strofinava il legno con uno straccio reso quasi nero dall’uso.
Padre Cesare si avvicinò, appena lo vide la locandiera si affrettò a gettare lo straccio in angolo. Lo squadrò con la sua enorme faccia, sotto la quale facevano capolino ben tre menti di carne superflua.
«Buona sera...» osservando il saio da monaco che Cesare portava sotto il mantello si affrettò a concludere la frase «...padre.»
«Buona sera» rispose lui, aggiungendo «Temo che dovrò passare la notte qui, l'eremo dovrebbe già aver serrato le sue porte a quest'ora, giusto?»
La donna si girò, lanciò un urlo con quella sua voce profonda, facendo trasalire gli unici due avventori intenti a consumare il loro pasto silenzioso ai tavoli della sala. «Tonio! Scendi che ce n'è un altro!».
Non trascorse che un istante dall’urlo della locandiera, che si affacciò, da una rampa di scalini situata in fondo alla stanza, un pallido ragazzino dall’aria annoiata.
Padre Cesare lo osservò arrivare, strascicando i piedi con passo incerto, sollevare il suo fagotto e portarlo al piano di sopra.
Una volta che il ragazzino fu sparito al piano superiore, Cesare si rivolse alla donna:
«Spero che questo basti anche per un piatto del suo stufato, gentile signora, il viaggio è stato lungo e faticoso.»  prese dalle tasche tutto il denaro che aveva e lo rovesciò sul bancone.
La locandiera raccolse con attenzione tutte le monete, una per una, mentre sottovoce contava.
Alla fine sentenziò: «Basta eccome. Tenga il resto però.»
Cesare rifiutò con garbo «A me non servono, li usi piuttosto per il suo bambino.»
«Grazie allora» rispose lei, e senza troppe cerimonie si cacciò tutto in tasca, poi continuò «Se vuole sedersi a uno dei tavoli, tra poco le porto la cena, padre».
Il monaco si voltò, lanciò uno sguardo nella sala per scegliere dove sedersi, trovando con disappunto che gli unici due tavoli erano occupati, ognuno da un solo avventore. Evidentemente entrambi erano poco in vena di reciproca compagnia.
Uno era un uomo robusto, tozzo e dall'aspetto decisamente poco invitante: indossava una camicia con larghe macchie di vino sul davanti ed enormi aloni di sudore sotto le ascelle. Tutto il corpo, a partire dalla pelle fino alle unghie, era costellato da incrostazioni di sporco nerastro. Stava seduto storto con una gamba penzolante e guardava con una punta di disprezzo Padre Cesare. Quando incrociarono lo sguardo il tizio sorrise beffardo mostrando una fila di denti in legno oramai marcito. Una cicatrice gli deturpava la gola, e formava in mezzo alla barba incolta un secondo, malsano sorriso.
L'altro individuo invece si presentava in maniera completamente diversa: già la postura composta faceva intuire che si trattasse di una persona di rango sociale di tutt’altra risma rispetto al primo avventore.
Portava una giacca con sottilissimi intarsi d'argento sulle cuciture, sotto la quale un panciotto ben riempito faceva capolino, anche questo coordinato con la giacca.
Padre Cesare non ebbe dubbi e si avvicinò a quest'ultimo, prendendo posto di fronte a lui.
Mentre spostava la sedia per accomodarsi, notò quello che sembrava un bagaglio lasciato per terra, una borsa.
“Forse non si ferma per la notte” pensò Cesare.
«Buona sera padre» lo salutò il distinto signore sollevando lo sguardo dal suo piatto di stufato.
Padre Cesare lo guardò in faccia: pareva abbastanza anziano, i pochi capelli ormai ingrigiti dall'età, e portava le basette perfettamente rasate. Gli occhi apparivano stanchi ma sereni, segno di una dura giornata di lavoro ormai giunta al termine.
«Buona sera» rispose Padre Cesare.
«Come mai fuori dall'eremo? Mi avevate detto che avete smesso per ora con il commercio di spezie e -»
Cesare lo interruppe subito «Questo perché io non sono del monastero, o meglio, ne farò parte da domani non appena apriranno i portoni».
«Ah, capisco. Beh, deve scusare la mia curiosità ma sa, normalmente da quel posto entrano ed escono pochissime persone; io sono fra quelle, in quanto medico. La cosa più assurda di questi tempi è che si ammalano più i monaci che vivono isolati che la gente comune del paese. Qui negli ultimi anni le malattie più gravi che ho visto sono i soliti raffreddori invernali, nulla di più. Sembra quasi che il miracolo che dicono sia avvenuto tanti anni fa continui ancora imperterrito la sua opera benefica, ma io non credo in queste cose. Coincidenze, nulla di più. Senza offesa ovviamente, padre.»
Padre Cesare non aveva nessuna intenzione di perdersi in chiacchiere con uno sconosciuto, per di più con qualcuno che poteva venire in breve tempo a conoscenza della causa per cui era stato trasferito a Nibizzola. E’ noto quanto le voci viaggino in fretta anche nei monasteri isolati.
«Dio lascia sempre liberi di scegliere, per cui non mi reca assolutamente offesa.»
Lo stufato venne servito dal ragazzino, che portò i piatti al tavolo con il suo passo pigro e strascicato.
Cesare sperava di poter consumare il pasto in totale tranquillità e silenzio: purtroppo il suo commensale la pensava diversamente.
Attese infatti che il monaco finisse le preghiere prima della cena, e poi partì con le domande:
«Allora padre, cosa la porta qui a Nibizzola?»
“Nulla che a te possa interessare, visto che domani probabilmente ti dimenticherai di me non appena riprenderai a visitare persone, medico. A meno che tu non scopra la verità. In quel caso parlerai di me a tutti quelli che incontrerai, probabilmente. E' sempre così.”
Il monaco disse invece: «La Fede è una cosa che va coltivata e deve sempre crescere nell'arco della vita, poiché essa ci permette di arrivare ad una comprensione più piena dell'esistenza avvicinandoci al Signore. Ho sentito che la mia fede stava iniziando a vacillare, per questo ho deciso di venire ad isolarmi nell'eremo insieme ai miei santi fratelli. E da domani vivrò lì.»
Il medico rimase un attimo imbambolato fissando Padre Cesare. Poi si riscosse e rispose «Ah, capisco. Quindi anche a voi di tanto in tanto viene a mancare la fede eh? Magari potessimo, noi persone normali, operare delle soluzioni tanto radicali nelle nostre vite, prendere e andare come ci pare! Ma il lavoro è lavoro, io cerco di fare il bene fisico delle persone e lei quello... quello...»
«Quello spirituale» concluse Padre Cesare accennando a un sorriso.
«Spirituale, giusto, giusto.»
Conclusero la cena in silenzio, con grande sollievo di Cesare.
Quando i piatti furono vuoti, il medico si alzò e recuperò la sua borsa da terra, poi si rivolse un'ultima volta al monaco: «Beh, s'è fatto tardi. Se destino vuole ci rivedremo all'eremo, sperando che quel fraticello riesca a superare la notte».
Padre Cesare si alzò dopo che il medico fu uscito dalla locanda, dirigendosi verso il bancone ma trovandolo vuoto.
«Le stanze sono su per gli scalini, la sua è la prima sulla sinistra, se quella polenta di mia moglie si sbriga a sistemarla.»
A parlare era stato il tizio dall’aria poco raccomandabile seduto all'altro tavolo, che si alzò e andò a sistemarsi dietro il bancone. Cesare cercò di cancellare l’espressione stupita dal suo volto e subito si avviò verso le scale biascicando un «Oh, grazie».
Arrivato al piano superiore trovò la stanza sulla sinistra con la porta socchiusa.
Un leggero odore di muffa permeava tutto l’interno della camera, che si presentava assai spoglia persino per le abitudini di un monaco.
La locandiera stava riassestando il letto, composto da poche assi e un sottile materasso, che probabilmente sarebbe servito a poco nel rendere più comodo il riposo.
Per riscaldare l'ambiente era stato collocato appena accanto alla porta un piccolo vaso con dentro delle braci ardenti; Cesare sperò che bastassero per tutta la notte.
La donna si congedò e prima che si chiudesse alle spalle la porta lui la ringraziò benedicendo lei e il figlio.
Era esausto, le fatiche del viaggio lo avevano stremato, così iniziò subito le preghiere notturne ultimandole forse troppo rapidamente, e si coricò sul logoro materasso, trovandolo persino più comodo di quel che l’apparenza suggeriva.
Non sapeva che tipo di accoglienza avrebbe trovato l'indomani all'eremo.
Temeva che tutti lo trattassero come una specie di appestato, dopo quello che gli era successo, ma d'altronde non sapeva nemmeno cosa era stato riferito della sua storia nella lettera che annunciava il suo arrivo.
Alla fine anche pensare gli risultò faticoso, così scivolò senza accorgersene in un sonno profondo e senza sogni.

Si svegliò alle prime luci all'alba. La stanza era diventata molto fredda, le braci completamente spente, Cesare decise quindi di alzarsi subito e si vestì quanto più rapidamente poté, gli arti ancora intorpiditi dal sonno.
Riassettato il suo bagaglio, uscì nel corridoio e scese le scale, trovando il rozzo oste che stava pulendo i tavoli dove avevano cenato la sera prima. «Buongiorno, dormito bene padre?»
«Splendidamente. Ora dovete scusarmi ma preferirei raggiungere subito l'eremo. Che Dio vi benedica, e andate in pace».
L'uomo accennò un segno della croce «Grazie padre» poi aggiunse con un ghigno «e stia attento in mezzo a quei rinchiusi, sia mai che la solitudine gli abbia dato alla testa».
Padre Cesare non rispose, si avviò con un cenno di saluto alla porta e poi con passo deciso iniziò la lunga camminata prima attraverso e poi fuori dal paese, verso l'eremo.
Passando accanto alla piazza, notò una grossa statua situata proprio al centro: rappresentava due persone. Incuriosito si avvicinò per osservarla meglio.
In piedi, si ergeva alta la figura di un uomo nel fiore degli anni, versava da un'ampolla stretta nella mano destra quella che pareva dell'acqua sulla bocca del secondo personaggio, inginocchiato in atto di supplica, il volto bloccato in una perenne disperata preghiera.
Padre Cesare lesse l'iscrizione posta alla base:
“Qui visse San Costante Sarachi da Nibizzola, colui che mondò questo paese dal nero male che tanti  ha portato via. L'acqua santa con cui ripulì dalle malattie e dai peccati questa gente è custodita nell'eremo a lui dedicato”.
Padre Cesare alzò lo sguardo: oltre la statua, appena fuori dalle porte del paese, si scorgevano in lontananza le mura della sua nuova casa, l'Eremo di San Costante.

martedì 22 maggio 2012

NoPipe Reports #1

21.05.2012 - Ore 16.24,
 in via Molino si trovava il nopipe al completo di ritorno verso casa in condizioni fisiche e mentali imbarazzanti  dopo una giornata di studio assiduo in centro a Ravenna. I tre si accingevano ad uscire dal parcheggio con non poca fatica dal momento che il suddetto parcheggio era stato occupato nei modi più fantasiosi da parte di ""distratti"" automobilisti. Ksinin infatti si era appena proposto di rimanere giù dalla macchina per dare indicazioni a Gambero che quel giorno aveva preso su l'auto (come avete potuto notare nel NoPipe - OnTheRoad #2), e in quel momento accadeva l'irreparabile: un boato sconvolgeva l'aria intorno a loro, subito sgomento e terrore galoppanti si insinuavano nelle membra dei tre già provati dagli ultimi giorni di attentati e terremoti. Per un attimo non si capiva nemmeno cosa fosse successo, poi diveniva chiaro: il lunotto posteriore di un auto adiacente loro era esploso andando in frantumi:





Il magicamente magico trio, pensando inizialmente che si trattasse di un atto vandalico, si adoperava per cercare un eventuale teppista nelle vicinanze mentre diveniva sempre più chiara l'amara verità, ovvero che il vetro avesse semplicemente deciso da un momento all'altro di smettere di vivere eseguendo un Harakiri di proporzioni bibliche. Nel frattempo altre persone incuriosite si avvicinavano alla vettura cercando di capire le dinamiche che hanno portato al tragico epilogo del vetro e intanto uno di loro chiamava la Polizia Municipale per informare i custodi dell'ordine pubblico del sinistro. 
Il NoPipe WorkGroup avrebbe atteso volentieri (o quasi) l'arrivo delle forze dell'ordine, ma dopo una buona mezzora di se e di ma, decideva di tornare a casa pago d'aver in qualche modo contribuito alla soluzione del problema. 
Siccome la macchina in questione era clamorosamente in divieto di sosta, non si sa se all'arrivo della Polizia gli sia stata appiccicata anche una multina, ma di certo se cosi fosse ci si immagina lo sconforto totale del proprietario.

NoPipe Reports, Ravenna.

NoPipe - OnTheRoad #2

Andando a studiare in centro



lunedì 21 maggio 2012

Bar Sport: Il Giro d'Italia


Carissimi amici del No Pipe Blog, qui è Gambero che parla.

Quest'oggi volevo parlarvi di un argomento a me molto caro: il mio sport, ovvero il ciclismo.
Siccome in questo periodo, come credo tutti voi sappiate, si sta correndo la novantacinquesima edizione del Giro d'Italia, volevo spendere un po' del mio tempo per fare un'analisi sulla corsa rosa, entrata nella sua terza ed ultima settimana.
Voglio precisare che si tratta solo di mie opinioni personali sulla corsa di cui mi farebbe piacere discutere con chiunque fosse interessato.
Inizierei subito parlando dei primi giorni di gara, che si sono svolti in terra danese. Partiamo dalle note positive: ho apprezzato moltissimo i paesaggi nordici e l'entusiasmo e la passione per le due ruote dei danesi, verso cui nutro enorme rispetto e simpatia. Purtroppo però non sono assolutamente d'accordo col far partire uno degli eventi sportivi più seguiti ed apprezzati d'Italia all'estero. In primo luogo credo che si venga a perdere una parte, piccolissima certo, del titolo della corsa: si tratta di Giro d'Italia e, secondo il mio parere, dovrebbe rimanere nei nostri confini e toccare il maggior numero possibile di regioni della nostra terra, che molte volte non vengono nemmeno sfiorate. In secondo luogo si vincola il primo dei due giorni di riposo al quarto giorno di gara, dopo tre tappe di pianura: credo che sarebbe molto più utile spalmare i due giorni di riposo disponibili in maniera più simmetrica, alla fine della prima e della seconda settimana ad esempio. Ovviamente questo è solo un discorso di organizzazione, nutro come già detto il massimo rispetto per tutte le terre straniere da cui è partita la corsa, anche negli anni precedenti.
Passiamo ora ad analizzare più nel dettaglio la gara ed i suoi protagonisti. Non voglio commentare più di tanto i corridori che hanno indossato la maglia rosa in quanto credo che chiunque arrivi ad indossare il simbolo del primato, per una o più giornate, lo meriti in pieno e debba ricevere solo elogi per essere riuscito a far avverare un suo sogno, scrivendo una pagina importantissima, non solo della propria carriera, ma anche della storia della manifestazione. Andrei piuttosto ad analizzare i girini suddividendoli in due categorie: i velocisti e coloro che puntano alla vittoria finale.
Per quanto riguarda i velocisti, in particolare le tappe a loro più adatte, credo che l'organizzazione abbia lasciato un po' a desiderare nel disegnare gli arrivi di queste tappe, inserendo troppe curve vicinissime all'arrivo: questa è per me la causa maggiore delle grandi ammucchiate che si sono notate negli sfondi degli arrivi adatti alle ruote veloci; arrivi come quello di Cervere, con un lunghissimo rettilineo sarebbero stati molto migliori. Analizzando gli sprinter credo comunque ci sia pochissimo da dire: la maglia iridata ha un degno padrone. Mark Cavendish è nettamente il velocista più forte in circolazione e, senza intoppi o problemi, gli arrivi in volata sono al 90% abbondante roba sua. Bravissimo in ogni caso tutti i ragazzi che si sono distinti nelle volate, da Goss a Ventoso, passando per Felline, Favilli, Nizzollo e Ferrari (con una macchia) e tutti gli altri che hanno animato delle splendide volate.
Andiamo ora a parlare del cuore della corsa, in particolare di tre corridori che alla partenza ritenevo i grandi favoriti: Basso, scarponi e Kreuziger. Fino a questo punto sono sinceramente non si è visto ancora molto. Basso, il mio grande favorito della vigilia, deve ancora mettere fuori il naso; Scarponi mi pare in buona condizione, anche se a mio parere ha fatto uno sforzo inutile nella tappa vinta dal grande Paolo Tiralongo, poteva evitarlo; Kreuziger mi sta, sinceramente, abbastanza deludendo, ha una squadra molto forte, di sicuro credo che si farà notare, per ora non mi è sembrato cattivo al punto giusto e abbastanza ai margini, troppo per uno che ritengo papabilissimo per la vittoria finale. Ai tre che ho appena citato si è aggiunto di prepotenza un quarto nome: Joaquin “Purito” Rodriguez, la maglia rosa attuale è di sicuro il corridore di classifica che ha la gamba migliore: ogni giorno che passa le sue quotazioni per la vittoria finale aumentano, fa veramente paura.
Di sicuro la mancanza di un corridore “faro”, il Contador dello scorso anno per intenderci, rende la corsa più noiosa: i ragazzi si studiano e sembra abbiano tutti, o quasi, una gran paura di attaccare, tutto ciò ha come conseguenza una classifica molto corta ed indecisa, su cui è praticamente impossibile fare previsioni.
Che dire, speriamo che i ragazzi ci facciano divertire in quest'ultima settimana di gara.
Concludo facendo i complimenti a tutti i ragazzi vincitori di tappa e un grandissimo in bocca al lupo a tutti quelli che hanno dovuto abbandonare il Giro per problemi fisici. I ragazzi si dimostrano come sempre simpaticissimi e disponibilissimi in tutte le occasioni, nonostante lo stress incredibile a cui ti sottopone questa corsa e meritano tutti un grandissimo sostegno.
Incito tutti i lettori a commentare tranquillamente l'articolo e a fornire la loro opinione, ovviamente sempre nei limiti della sportività e della correttezza, per una sana discussione di sport.

Per oggi è tutto amici, continuate a seguire numerosi il nostro blog,
Gambero

venerdì 18 maggio 2012

Aliens In GB

Salve a tutti,
sono Gambero e quest'oggi volevo proporvi, come già annunciato nell'OnTheRoad #1, un mix di tracce electro-house da me realizzato, sotto pseudonimo di Chrifish.

Enjoy!







Qui sotto vi propongo anche la tracklist dei brani e, siccome il mix è proposto in traccia unica, il minuto a cui inizia ogni singolo brano:


0.00        LMFAO - Kendo And I Know It (Mattias Mash Up)

5.11       Madonna - Give Me All Your Luvin' (Nicky Romero Remix)

9.52       Skrillex & The Doors - Breakn' A Sweat (Zedd Remix)

14.36     Deadmau5 & Wolfgang Gartner - Animal Rights

19.07     Mord Fustang - We Are Now Connected

23.01     Hardwell - Spaceman

28.20     Skrillex - Rock N' Roll

32.12     Martin Solveig - The Night Out (A-Trak Remix)

37.48     Jerry Rekonius - 10TH

42.54     Skrillex - My Name Is Skrillex

46.39     Nicky Romero - Generation 303

51.01     Bingo Players - L'Amour

55.11     Alex Kenji & Manuel De La Mare - Acid As 303 (Original + Club Mix)

1.00.23  Chris Lake - Build Up (Tommy Trash Edit)

1.04.50  Cedric Gervais - Molly

1.10.32  Swedish House Mafia - Greyhound



Mi raccomando qualsiasi opinione è ben accetta sottoforma di commento!

giovedì 17 maggio 2012

NoPipe - OnTheRoad #1

Tornando a casa


La Sigaretta Elettronica

Ciao a tutti amici del NoPipeBlog,
in questo video Beto vi parlerà della Sigaretta Elettronica.
Mi raccomando non intendetelo come una pubblicità del ministero della salute, è una semplice descrizione di un oggetto che magari qualcuno non conosce.

 

Se avete qualche domanda, non abbiate timore di farla commentando sotto questo post o direttamente nel video di YouTube.

mercoledì 16 maggio 2012

Seconda parte del racconto "La stella"


Ed ecco qui la seconda parte del racconto scritto da Ksinin e Gambero! Un grazie ancora a Sara per il suo essenziale intervento di editing.

Restate sintonizzati sul No Pipe Blog in attesa della terza parte, che molto probabilmente arriverà la prossima settimana!

Enjoy!

PROLOGO

Parte Seconda

Aveva appena finito di fare sua la coscienza degli esseri che percepiva vicini quando lo vide rovinare dentro la conca.
Come aveva fatto a non percepirlo subito?
Ne comprese immediatamente il motivo: la vita lo stava abbandonando.
Decise di restare ad osservarlo. L'essere giaceva privo di coscienza sul terreno. Era lì, con la mano stesa che puntava proprio verso la sua figura.
Rimasero così per molto tempo. Infine il destino decise di lasciare ancora la vita nel corpo della creatura.

*

Costante si svegliò. Stava leggermente meglio ma capì presto che la malattia era ancora con lui, e con essa anche le allucinazioni. Con la poca forza rimastagli si mise carponi.
La sua mente annebbiata non riusciva a definire cosa ci fosse esattamente di fronte a lui.
Sembrava come se l'acqua del fiume si fosse raccolta, assumendo la vaga forma di un uomo, ma quel che gli appariva di fronte non aveva certo l’aspetto di un essere di questo mondo.
Costante cercò il suo sguardo, ma quando vide ciò che dovevano essere gli occhi della creatura dinanzi a lui, non poté che distogliere i suoi da quella visione.
Era come osservare il sole: non era possibile guardarne il viso a causa di quelle due luci accecanti.

«C-chi sei?» Le parole gli erano uscite quasi senza volerlo.
«Così come mi vedi ora, nessuno.» La voce dell'essere risuonava attorno a lui, ma Costante era certo di non aver notato il movimento di nessuna bocca su quel viso. «Prima che la vita ti abbandoni, vieni.»  Il ragazzo, istintivamente, afferrò la mano che gli era comparsa dinnanzi. Quel tocco gli riportò alla mente una sensazione che aveva dimenticato da tempo, e rivide sé stesso da bambino, quando afferrava la mano della madre per sentire vicino a lui la rassicurante presenza materna.
Così si avviarono a passo lento, con il ragazzo che riusciva a stare in piedi a stento solo grazie al sostegno dell'essere, che dal canto suo procedeva diritto davanti a lui, guidandolo senza degnarlo di uno sguardo. Mentre abbandonavano i campi per dirigersi nella vicina boscaglia, Costante ebbe modo di osservarlo meglio, anche se di spalle. Era formato, come aveva già visto, da una sostanza che somigliava all'acqua, ma evidentemente era qualcos'altro: non riusciva minimamente a vedere attraverso il suo corpo per quanto traslucido fosse all’apparenza. Visto da lontano sarebbe sembrato un uomo nel fiore dell'età. Riusciva a distinguere, appena sotto la “pelle” della creatura, lievi increspature nel liquido, atte a formare quelli che parevano i muscoli che si muovevano in tensione nel lento movimento del passo.

Quando distolse lo sguardo dal misterioso estraneo che lo stava accompagnando, si accorse di essere al limitare di una piccola radura, che aveva attraversato molte volte  recandosi nel bosco  per recuperare la legna per l'inverno.
Qui l'essere si fermò e fece adagiare Costante su un letto di foglie.

La malattia del ragazzo stava avanzando con ritmo incessante, divorandolo dall’interno, ed il poveretto era cosciente che presto non sarebbe nemmeno più stato in grado di sollevarsi da quel giaciglio. Rimasero così, in silenzio, per un tempo che a Costante sembrò lunghissimo, scandito dalle dolorose fitte che percepiva ad ogni muscolo del corpo, della sofferenza data dai bubboni e dalla febbre.
Quando la luce del giorno iniziò a calare finalmente il silenzio venne rotto, fu la creatura a parlare per prima:
«Costante, parlami della tua vita. Chi eri prima dell'avvento della piaga?»
Costante rimase per un attimo stupito dalla domanda. Decise che arrivati a quel punto non aveva senso interrogarsi sull'affidabilità dello straniero: peggio di così non poteva andare, e parlare un po' probabilmente lo avrebbe distolto dalle sofferenze.
«S-sono nato in una famiglia di contadini...» la voce gli usciva a stento, un bisbiglio quasi impercettibile, ma il ragazzo era sicuro che la creatura lo stesse ascoltando attentamente «… beh non c'è molto da dire. In effetti cosa si potrebbe pretendere dalla vita di un contadino?»
«Non eri contento della tua vita?» chiese lo straniero di rimando.
«È una domanda che non mi ero mai posto, non prima che arrivasse la peste. P-prima tutto scorreva velocemente, il lavoro n-non dava tempo di porsi certe domande, in effetti la v-vita mi andava bene così, era…s-semplice.» Calò di nuovo il silenzio. Dopo qualche minuto Costante proseguì «P-poi arrivò il flagello. Tutto andò a farsi benedire. I miei g-genitori f-furono fra i primi ad ammalarsi, p-però io e mio fratello siamo riusciti a s-sopravvivere e a gestire da s-soli il terreno. Credevo che sarei riuscito lo stesso a sposare Giuditta, che non tutto era perduto, m-mi ero convinto che mio fratello non si sarebbe mai ammalato, e invece è successo, troppo presto... t-troppo p-presto...troppo...» le parole si persero in un insieme di mugugni incomprensibili. Era stanchissimo, e la febbre gli stava salendo di nuovo. Provò a parlare, ma ebbe un rigurgito di bile che gli finì sul petto. Sentiva l'umido che si faceva strada attraverso la stoffa, ed iniziò a provare intensi brividi di freddo. «La casa... l-la nostra casa, l'hanno marchiata e b-bruciata..» vomitò altra bile. Ebbe un ultimo, disperato, momento di lucidità: Giuditta, doveva tornare da lei. In preda allo sconforto Costante sospirò «G-giuditta.. D-dove s-sei?» Poi, con tutta la voce che gli restava disse «Ehi, T-t-tu p-puoi aiutarmi?»
La domanda si perse nel nulla, e così fece anche la mente di Costante, che cadde in un sonno inquieto.

Il mattino seguente Costante si sentiva meglio, anche se i bubboni che avvertiva nelle gambe gli dolevano come non mai. Incredibilmente si era svegliato lucido, così pensò che la febbre doveva essersi abbassata nel sonno. Ebbe uno spasmo improvviso, iniziava a ricordare gli eventi del giorno prima e, in preda al panico, cercò di mettersi seduto  sebbene gli arti lo reggessero a malapena. Riuscì a indietreggiare fino a poggiare la schiena su un tronco. Quando finalmente si guardò attorno, lo travolse un altro fremito: aveva appena incrociato gli occhi con quella che riteneva un'allucinazione, e di nuovo li aveva dovuti distogliere immediatamente, erano accecanti come li ricordava attraverso i deliri della febbre.  «Tu sei vero?» chiese d’istinto. «Io esisto, come tu esisti. Adesso continua il tuo racconto di ieri sera. Chi è Giuditta?» Costante ebbe una fitta al cuore. «Si. Giuditta, la mia amata. Ci conosciamo fin da bambini, siamo vicini di casa, i nostri poderi confinano; siamo vissuti sempre in mezzo ai campi. Le famiglie erano già d'accordo per il nostro matrimonio, tutto andava bene.» Costante sospirò. «Poi sono arrivate prima la carestia e poi la peste. Quando rimasi senza la mia casa loro mi ospitarono solo ad una condizione: dovevo dargli la mia terra, la terra della mia famiglia;  non mi vedevano più bene come prima, avevano paura che anche io fossi malato, ma loro erano ciechi, ciechi all'amore che lega me e Giuditta, se ci fossimo sposati le terre sarebbero state di nuovo mie di diritto un giorno,  tutto sarebbe tornato a posto. Ora invece eccomi qui, proprio quando mi stavo convincendo che tutto si poteva sistemare.» Si lasciò andare ad un sorriso amaro.
Alzò lo sguardo fino a trovare le gambe della creatura, cercando una parvenza di dialogo:
«T-tu hai mai avuto una donna?»
«Mi domandi se io ho mai provato il sentimento che voi chiamate amore. Posso rivelarti che sono in grado di percepire qualcosa di simile, ma non a livello individuale.» Costante comprese poco della risposta ricevuta. L'estraneo proseguì: «Avresti trovato sollievo se ti avessi rivelato somiglianze tra me e te?»
«B-beh. Forse avresti potuto capire m-meglio il dolore che provo.»
«Mi dispiace, non sono qui per alleviare i mali del vostro mondo. Ma solo per osservarlo.»
«Q-quindi n-non mi aiuti?» A questa domanda l'essere non rispose; calò il silenzio. Costante non ebbe né il coraggio né la forza di porre ulteriori domande e si lasciò cadere in un sonno sempre più ricco di tormenti.

Quando i primi raggi del sole filtrarono attraverso i rami Costante aprì gli occhi. Questa volta la notte non aveva giovato alla sua salute: il ragazzo non riusciva a muovere nessun arto, segno che la malattia era giunta allo stato ultimo. Alcune delle pustole sotto alle ascelle erano esplose ed un odore rancido si era diffuso attraverso i vestiti umidi, aumentando il suo disagio. Lui quell’odore lo conosceva bene.
La solita voce ruppe il silenzio: «Costante, ormai il tempo è poco, devo chiederti un'ultima cosa.» A queste parole l'animo del poveretto ebbe un sussulto di gioia e rabbia assieme.
“Perché mai questa creatura dove continuare a tormentarmi tutto il giorno?” pensò. Ma  la paura di rimanere solo ebbe il sopravvento, così restò in silenzio, aspettando che lo straniero finisse la sua richiesta. «Costante, come immaginavi il tuo futuro senza la piaga?»
La voce del ragazzo ormai era ridotta ad un rantolo quasi incomprensibile «Io, io dovevo sposare Giuditta, avere dei bambini con lei e portare avanti il lavoro dei miei genitori, non chiedevo troppo in fondo... Forse Dio non vuole la mia felicità? Io-» Lo straniero per la prima volta interruppe il ragazzo: «La verità, Costante, la verità...» A questo punto le lacrime si fecero strada sul volto del giovane mentre la rabbia della disperazione gli invadeva la mente «Quei vecchi! Dovevano morire loro! Avrei avuto la mia vita felice con Giuditta senza di loro... Bastardi! Bastardi maledetti!» Costante non stava nemmeno più parlando, ma gli urli nei suoi pensieri avevano raggiunto sicuramente la creatura.
Infine la ragione lo abbandonò del tutto.
«Non posso perdere tutto così! Aiutami tu! Ti prego! Aiutami! Aiutami! Dio, ascoltami per una volta!»  Ma per quanto cercasse di urlare, attorno a lui regnava il silenzio. «Ti supplico, guariscimi! Giuditta non può vivere senza di me! Non voglio morire! Guariscimi!» Nonostante dalla bocca di Costante non fosse uscito nessun suono lo straniero rispose a voce alta: «Non aver paura Costante, hai detto di essere soddisfatto della tua vita prima della piaga, ma non puoi fare tesoro della vita senza aver fatto esperienza anche della morte. Ora, alla fine, sii soddisfatto di ciò che sei e di ciò che sei stato.» Di queste parole, così nette, Costante poteva ormai comprendere ben poco, ma il tono fermo dello straniero aveva placato il suo animo: era vero dopotutto, lui era stato felice, e come tutte le cose anche la felicità si estingue. «Voi uomini avete sempre cercato di ottenere la vita eterna, ma ricorda, l'eternità non fa altro che togliere valore all'esistenza e a ciò che essa rappresenta per tutti noi.» Con queste parole che gli risuonavano nella mente Costante decise di abbandonarsi ad un sonno tranquillo e senza incubi.

«Apri gli occhi.» Costante ci riuscì. Era stato adagiato con la schiena poggiata ad un ceppo d'albero e, anche se a fatica, si guardò attorno. Non aveva più alcuna percezione del suo corpo, la vista era l'unico segnale che gli faceva comprendere di essere ancora vivo, e che “lui” era sempre lì a fissarlo. Era tranquillo, ormai non aveva più senso lamentarsi. Vi era un solo pensiero fisso nella mente del ragazzo, una sensazione di attesa quasi positiva, che gli permetteva di vedere la fine di tutto come una liberazione.
Non riusciva nemmeno più a trovare il senso dei suoi pensieri per Giuditta, tutto aveva perso di significato. Ma per Costante ora si trattava solo di attendere il momento.
«Ora sei pronto. Guardami.»
Il ragazzo incrociò per la terza volta lo sguardo dell'essere, riuscendo finalmente a sostenerlo. Anzi, gli era impossibile distoglierlo, tutta quella luce gli provocava un senso di pace totale. «Grazie Costante, ora conosco pienamente il significato di “vita” che avete voi umani.»
Rimasero a fissarsi, finché l'ultimo pensiero di Costante si perse nella luce.  

*

Era ormai passata una settimana da quando Giuditta aveva dovuto dire addio al suo amato.
La ragazza aveva passato gli ultimi giorni nella disperazione più totale, rifiutando ogni contatto coi genitori, restandosene chiusa dentro la sua stanza.
Quella mattina aveva deciso di restare stesa sul letto, assaporando le lacrime che avevano impregnato il cuscino. Non dava più peso a nulla ormai. Nemmeno ai colpi incessanti sul portone di casa che avvertiva sotto di lei.
Sentì i passi attutiti di sua madre che si affrettava per le scale. Dopo poco Giuditta avvertì la porta principale scattare. Ci fu un tonfo. Giuditta udì un grido di sua madre: «Tu!», la donna probabilmente era caduta a terra.
«Si. Sono io.» Sentendo quella voce  la ragazza provò un brivido di felicità e scattò fuori dalla stanza, precipitandosi giù dalle scale.

domenica 13 maggio 2012

Prima parte del racconto "La stella"

Come annunciato nel primo post ora pubblichiamo la prima parte del racconto scritto da Ksinin e Gambero intitolato "La stella". La versione che riportiamo di seguito è passata anche dall'editing della nostra collaboratrice Sara, che si è prodigata nel renderlo letterariamente leggibile.


Dateci la vostra opinione, e a breve pubblicheremo anche la seconda parte!




Enjoy!

PROLOGO

Parte Prima

1630, Nibizzola, Piccolo villaggio rurale nella campagna milanese.

Peste. Questa era la parola più sussurrata e temuta in tutta Europa, ed il piccolo villaggio di Nibizzola non faceva eccezione. Il male nero imperversava, bussava di casa in casa e non c’era città, villaggio o sperduta campagna al riparo dal dilagare dell’inarrestabile scia di morte.
Il paese era in profonda rovina. Nessuno usciva più di casa e la maggior parte di coloro che fino a pochi mesi erano gli abitanti di Nibizzola, in quel momento era riversa per le strade come cadavere. Il fetore aleggiava in ogni angolo ed in ogni vicolo. Gli unici esseri viventi che animavano questo cimitero a cielo aperto erano banditi coperti di stracci, o vagabondi ancor peggio in arnese alla disperata ricerca di cibo. Qualche raro medico coraggioso ancora si aggirava per le vie, le inquietanti maschere adunche calate sul volto nel vano tentativo di evitare il contagio, si affaccendavano di casa in casa offrendo aiuto e un lampo di speranza.
Tuttavia, nonostante i loro sforzi molte erano le persone che a Nibizzola avevano perso tutto; fra queste Costante Sarachi a cui la peste non aveva lasciato nulla, nè la famiglia, nè un tetto sotto cui vivere.
Le poche terre che possedeva, ereditate di generazione in generazione dai Sarachi che furono prima di lui, le aveva cedute alla famiglia Figini, in cambio della mano della loro unica figlia, Giuditta, di cui era follemente innamorato, ma soprattutto in cambio di ospitalità. Dopotutto, rimasto solo alla morte del fratello, seguita a quella dei genitori, non sarebbe più in stato in grado di occuparsi di quei possedimenti.
Il suo amore per Giuditta era contrastato dai genitori di lei, che avevano accettato il ragazzo sotto il loro tetto manifestando tutta la loro controvoglia, attratti solamente dal dono del piccolo terreno che questi aveva ereditato.
Il fato di Costante però, gli avrebbe riservato un ultimo scherzo crudele.

I primi giorni in casa Figini erano trascorsi tranquillamente contrariamente alle nere previsioni di Costante. I genitori di Giuditta erano contadini ritrovatisi dal mattino alla sera piccoli possidenti, e passavano molto tempo immersi in un'inutile lavoro di contabilità volto a catalogare le poche risorse sopravvissute alla carestia, il che regalava a Costante una certa quantità di momenti di sereno silenzio.
Una monotona quotidianità che si sarebbe sgretolata con la rapidità con cui l’inverno inghiotte le pigre giornate dell’estate.

Accadde tutto in una mattinata carica di pioggia: Costante si era svegliato coperto da uno strato di sudore che non faceva presagire nulla di buono.
Cercò di mettersi a sedere sul letto, scoprendo che ogni movimento aumentava il suo malessere. Percepiva come un fastidio sotto le ascelle, che andava e veniva quando muoveva le braccia.
Sforzandosi di superare il dolore che gli provocava il movimento, si toccò la fronte. Era bollente. Costante non era particolarmente istruito, e non era certo un medico, ma aveva visto quei sintomi troppe volte sui suoi cari perduti nel nero male, perché potesse fingere con se stesso che potesse trattarsi di una semplice febbre, e al sudore prodotto nella notte si aggiunse ben presto quello causato dall'ansia.
Che cosa poteva fare?
Valutò tutte le opzioni possibili, ma pian piano in lui si insinuava sempre più la certezza che fosse inevitabilmente giunta la sua ora.
Il pensiero travolgeva la sua mente riempiendolo di terrore.
Come avrebbero reagito i genitori della sua Giuditta scoprendo di avere un appestato in casa?
Ecco, l'aveva pensato, e già la realtà di questa parole si insinuava in lui dolorosa come una lama: si era definito “appestato”, e guardandosi le enormi pustole che gli erano comparse sulla pelle dell'inguine non poteva essere altrimenti.
Proprio mentre stava meditando su come ingannare lo sguardo vigile dei coniugi Figini, ecco che il padre di Giuditta irruppe nella stanza per svegliarlo.
«Allora tanghero, non è mica ora che vieni giù da quel - » il contadino rimase impietrito quando vide Costante coi calzoni calati che si fissava la zona inguinale. Ci vollero pochi secondi perché l'uomo realizzasse la situazione. Si precipitò fuori dalla stanza urlando a squarciagola il nome della moglie «Maria! Maria! Vieni subito qui! Il tanghero s'è preso la peste!»
Costante vide crollare quegli ultimi tenui appigli alla speranza che si era costruito: era spacciato. Anche se Giuditta si fosse opposta con tutta sé stessa al volere dei genitori, sarebbe finito fuori casa, a morire per strada.
Non voleva morire, ma più di tutto non voleva essere abbandonato a quel destino da solo.
Quando venne raccolto, sollevato come un peso morto da mani rudi e forti, non era però più in grado di opporre alcuna resistenza.
Rimase così, inerte, il corpo una volta forte e vitale abbandonato come peso morto sulla spalla del monatto che era venuto a prenderlo; riusciva a vedere a malapena, evanescente attraverso il velo della febbre e quello delle lacrime, la figura del “suocero” sulla porta di casa: pensò che gli sarebbe piaciuto definire così il vecchio un giorno.
Le grida di Giuditta gli giungevano come echi lontani quando venne gettato per terra e assaggiò con le labbra il sapore amaro dei ciottoli di pietra ricoperti di polvere della strada.
«Ah! Non hai nemmeno un soldo addosso, e speri che io ti porti al lazzaretto del paese qui vicino?! Scordatelo.»
Capì di trovarsi sulla strada principale del villaggio, era l'unica costruita in quella maniera per facilitare il passaggio dei carri verso la piazza del mercato. Sentì i passi del suo “benefattore” che si allontanavano. Tentò di sollevarsi, scoprendosi inaspettatamente pesante e goffo, quando la febbre prese il sopravvento e con essa arrivarono anche i primi segni del delirio. La volontà di Costante ormai si era persa quando barcollando caracollò su un ostacolo inesistente, battendo violentemente la testa per terra. Si abbandonò stremato alle visioni, che sempre più insistenti gli offuscavano la mente.
Quando le forze glielo consentirono, si girò supino: voleva sentire l’aria sul viso, non ne poteva più dell’arido sapore della terra sulle labbra, la sete era insopportabile e la testa gli pulsava senza sosta mentre un rivolo di sangue gli colava sulla fronte dove l’acciottolato l’aveva segnata.
Tutta la sua vista fu inglobata nel grigio cupo del cielo: si aspettava da un momento all'altro di sentire il viso bagnato dalla pioggia.
In quel grigiore imperante però, non fu pioggia che vide cadere verso la linea dell’orizzonte.
Guardando la sfera celeste illuminare il cielo gli vennero in mente le parole di Giuditta, in una tranquilla sera d'estate: «Una stella cadente, esprimi un desiderio!» aveva detto con la sua voce di bambina quasi donna.
L’unico desiderio che invadeva la sua mente febbricitante era quello di tornare da lei, correndole incontro con il corpo forte che ricordava di aver posseduto prima che quel nero male gli offuscasse la mente, un corpo sano e vitale che rispondeva suoi comandi, con cui avrebbe potuto abbracciarla di nuovo. Così, nel delirio della febbre, Costante iniziò a trascinarsi lentamente verso il punto in cui era scomparso l’oggetto luminoso caduto dal cielo.

Si mise ad annaspare nel terreno, le deboli braccia che cercavano di trasportare il suo corpo ormai inerte sempre più avanti, verso nemmeno lui sapeva cosa.
Infine, dopo quelle che gli parvero ore ed ore di sforzi estenuanti, si ritrovò a strisciare in mezzo ai campi di grano abbandonati, un'arida distesa nera, come una cicatrice della terra.
Le sue mani sanguinanti continuavano, come in preda ad uno spasmo infinito, ad afferrare la terra umida davanti a sé per farsi strada.
Tutto stava diventando terribilmente caldo, ma Costante lo percepiva appena, ogni atomo del suo corpo concentrato nello sforzo di avanzare mentre la febbre gli attenuava i sensi impedendogli persino di sentire appieno il dolore delle ferite e del calore.
Improvvisamente le sue mani non trovarono più il terreno, annasparono senza riuscire ad afferrarsi a nulla, non era che un goffo corpo ormai incapace di ritrovare l’equilibrio, e così il ragazzo rotolò malamente per una ripida discesa.

Quando si fermò, aprì a stento gli occhi e vide a pochi passi da lui la stella, calda e luminosa.
In quel momento la mente di Costante cedette, e tutto fu buio.

mercoledì 9 maggio 2012

Il No Pipe Blog

Benvenuti su questo nuovo blog, siamo il No Pipe Work Group, ovvero tre studenti di Informatica di 22 anni ciascuno. Abbiamo deciso di aprire un piccolo angolo sul Web riguardo i nostri interessi, che supponiamo essere condivisi con la maggior parte dei nostri coetanei.
Ma di cosa tratterà quindi questo blog? 
Principalmente
- Informatica e tecnologia generale
- Videogiochi
- Musica
- Narrativa
- Curiosità


Per individuarci, ci "taggheremo" in ogni articolo con i seguenti nomi: 
- Beto
- Ksinin
- Gambero

Abbiamo vari progetti in parallelo, tra cui produzione di musica Elettro-Dubstep [While(true) project] seguito da Beto e Gambero, mentre Ksinin si occupa di gestire un gruppo di gioco di ruolo basato sull'universo di Mondo di Tenebra, dei quali parleremo in futuro.

Presto pubblicheremo il primo articolo, ossia il primo capitolo di una piccola storia scritta da Ksinin e Gambero, per cui restate sintonizzati!

NoPipeWG