Dopo varie fatiche ecco anche la quarta parte del nostro racconto: godetevela e commentate come sempre! Grazie come sempre alla nostra collaboratrice Sara per il suo lavoro di editing.
Enjoy!
PROLOGO
Quarta parte
Il canto dei
monaci risuonava in tutta la chiesa come una sola voce, carica di
preghiera.
Padre Cesare non
partecipava al coro, era entrato nella comunità da troppo poco tempo
e preferiva mantenersi in disparte.
L'abate, Padre
Evaristo, dirigeva i monaci dall’alto del suo scranno con gesti
ampi e armoniosi, come se stesse accarezzando le corde di uno
strumento musicale.
Padre Evaristo
era abate ormai da qualche tempo, uomo severo, di robusta corporatura
per non dire in carne, cosa inusuale vista la ferrea dieta a base di
legumi bolliti alla quale ogni monaco doveva attenersi, portava una
lunga barba a punta che arrivava fin oltre la cinta del saio; era
solito fissarla proprio con la cinta per evitare che questa lo
impacciasse nei movimenti, sopratutto quando doveva dirigere il coro.
Padre Cesare lo
osservava rapito. Evaristo teneva gli occhi chiusi, preso da una muta
preghiera che veniva resa udibile dal coro, le voci che si
alternavano in una perfetta melodia altalenante seguendo ogni minimo
movimento delle sue mani.
“Ci vorranno
mesi prima che riesca a cantare così anch'io” pensò fra sé e sé
Cesare.
Nel monastero da
cui proveniva, a cantare nel coro era solo una parte dei suoi
confratelli, il ristretto gruppo dei conversi, mentre tutti gli altri
ne erano dispensati sulla base delle diverse attività a cui potevano
essere addetti.
Padre Cesare
sapeva di non aver mai posseduto una particolare attitudine per il
canto, ma nell'eremo di San Costante vivevano solo sedici monaci, lui
compreso, perciò tutti avevano il dovere di partecipare al coro.
In quel momento
erano quindici i monaci nella piccola chiesa dell'eremo.
L'assente era
Padre Alfredo, un giovane frate, di non più di una ventina d'anni,
costretto a letto ormai da giorni da un morbo sconosciuto, dal quale
pareva non riuscire a guarire.
Il medico che
aveva incontrato alla locanda si presentava all’eremo ogni due o al
massimo tre giorni, per sincerarsi delle condizioni di Alfredo. Dal
suo arrivo Padre Cesare non aveva ancora avuto modo di incontrare il
confratello malato, il dottore continuava a ripetere che poteva
essere contagioso e bisognava prestare la massima attenzione,
adottando ogni precauzione possibile affinché il male non si
diffondesse.
Venne addirittura
suggerito di trasferire Alfredo nel più vicino ospedale, ma il
malato per primo si era opposto fermamente, sostenendo tra i gemiti
che il suo destino era nelle mani del Signore come doveva essere, e
non avrebbe accettato di essere allontanato dalla sua comunità.
Evaristo aveva
confessato a Cesare che nessuno dei monaci aveva avanzato obiezioni,
assecondando la sua scelta e motivandola come una prova di fede
davanti alle insistenze del medico, e a nulla erano valse le sue
recriminazioni: « Se mi consentiste di portarlo in una struttura
adeguata, probabilmente sarebbe in piedi in pochi giorni!» si
lamentava senza risultato.
«Cesare.»
La voce lo
riscosse dai suoi pensieri.
Padre Durante lo
stava fissando. Era uno dei monaci più socievoli, e l'unico con cui
fino ad ora aveva avuto modo di scambiare più di qualche parola.
Conversando con
lui aveva scoperto con sollievo che nessuno era stato informato della
vera causa del suo arrivo a Nibizzola, questo lo aveva reso più
rilassato, e aveva cosi riacquistando un po' della serena giovialità
che gli era propria.
Non si era reso
conto che i canti erano conclusi, i monaci stavano già uscendo dalla
chiesa per recarsi a consumare il pasto serale.
«Durante, sei
rimasto qui ad aspettarmi?»
Durante aveva
passato i quarant'anni, era uno dei pochi confratelli a non portare
la barba ed aveva perso ormai completamente i capelli. Gli occhi
azzurri erano sempre vispi, come alla ricerca di qualcosa,
espressione di un fine intelletto che Cesare aveva potuto apprezzare
nel corso delle loro conversazioni.
«Stasera Evaristo sarà ancora di
veglia al povero Alfredo, speriamo che passi anche questa notte come
le ultime tre» esordì Durante.
«Già, ma io continuo a non essere
convinto. Il mio vecchio abate non ci avrebbe pensato due volte e lo
avrebbe costretto a sottoporsi a delle cure più accurate, visto che
la possibilità esiste, ma qui sembra che si dia più ascolto ad una
mente resa folle dalla malattia piuttosto che al parere del medico».
«Mi è parso di capire che tu sia
stato trasferito qui proprio per “un crollo di fede”. Considera
questa una prova del Signore, assistere Alfredo nel suo travaglio
potrebbe aiutarti a capire se sei in grado di ritrovare la fiducia
nell’opera di nostro signore. D'altro canto è anche vero che Dio
ti aiuta se Tu ti aiuti. In effetti, se anche decidessero di
trasferirlo momentaneamente in ospedale dubito che questo possa
peggiorare ulteriormente la sua condizione, ma è una decisione che
spetta al diretto interessato. Chi siamo noi per poter imporre al
nostro confratello la nostra volontà? Sappiamo forse dire cosa è
meglio per lui?».
«Siamo davvero tutti nelle mani del
Signore»
«Così sia»
Si avviarono fuori. L'eremo aveva un
ampio cortile centrale, in cui trovavano posto una stalla e la
piccola chiesa in cui ultimamente si riunivano sempre più spesso a
pregare per la salute di fratello Alfredo.
“Posso solo sperare che abbiano
ragione. Forse ho davvero perso la fede, ed è una cosa di cui non
riesco a capacitarmi, ma non riesco a vedere oltre il fatto che c'è
un malato che sta morendo in una delle nostre celle, e nessuno fa
niente per aiutarlo davvero”.
Poi improvvisamente, come una fitta,
gli giunse doloroso alla mente il ricordo della causa per cui si
trovava lì: “In effetti, chi sono io per poter giudicare la fede
altrui, io che ho contravvenuto così tanto ai principi del mio
ordine da ridurmi per la vergogna a voler raggiungere il Signore
compiendo il peccato supremo... No, devo essere forte, come lo ero
una volta. Devo avere fede che Alfredo ce la possa fare, e che San
Costante vegli su di lui. Che possa avverarsi un altro miracolo dove
la forza dell’uomo non dovesse bastare a salvarlo”.
Il miracolo.
Era giunto da un
giorno soltanto quando Padre Evaristo gli aveva raccontato di come un
contadino sconosciuto avesse salvato dalla peste un intero villaggio.
Costante Sarachi,
era questo il suo nome prima di divenire Santo. Era vissuto a
Nibizzola circa cento anni prima, nel periodo in cui la peste
affliggeva quelle terre.
«La storia narra
che il ragazzo era stato contagiato dal nero male, preso dalla
sconforto aveva scelto di abbandonare famiglia ed amici per recarsi
alla ricerca di un luogo in cui morire in pace, senza rischiare di
diffondere ulteriormente il morbo. Questa scelta era stata dettata
anche dall'amore che provava per Giuditta, sua promessa sposa»,
lanciata un’occhiata al suo interlocutore per vedere se lo stava
ascoltando con sufficiente interesse, poi l’abate aveva proseguito
nel racconto «Quando ormai tutti si erano rassegnati alla sua morte,
Costante però fece ritorno, completamente guarito, alla sua dimora.
Con se portava solo una piccola ampolla piena d'acqua purissima,
donatagli da un angelo per debellare il male dal suo villaggio».
Secondo la storia
riportatagli dall’abate, purtroppo durante l’assenza di Costante
il padre della sua amata Giuditta era stato colpito duramente dalla
malattia. La disperazione della famiglia però si era tramutata in
stupore e successivamente in gioia, quando Costante aveva versato
poche gocce d'acqua sulla bocca dell'uomo ormai morente: fu così che
avvenne il primo miracolo.
In pochi giorni
l'adorato suocero si riprese del tutto, dando modo finalmente a
Costante e Giuditta di sposarsi sotto la sua paterna benedizione.
In brevissimo
tempo la voce del miracolo si era sparsa per tutto il villaggio, e
così iniziò una vera e propria processione di bisognosi verso
l'abitazione di Costante. Molte furono le persone graziate
dall'acqua santa, tanto che nel villaggio non vi era quasi più
traccia di ammalati.
Quando però la
notizia dei miracoli iniziò a diffondersi oltre i confini di
Nibizzola l'ampolla era ormai vuota. Costante decise quindi di
preservarne il poco contenuto rimasto, nel caso in cui il nero male
fosse tornato ad affliggere il suo villaggio, cosa che però non
accadde mai.
Costante concluse
la sua vita in tranquillità, assieme alla sua sposa. Prima di morire
donò la sua ampolla ad un ordine di monaci eremiti, che la
custodirono in un luogo sicuro, fondando qualche anno dopo l'eremo di
Nibizzola, divenuto eremo di San Costante a seguito della
beatificazione del contadino, richiesta a gran voce da tutto il
villaggio.
“Ora la reliquia si trova qui, a due
passi da me” pensò Cesare attraversando il piccolo cortile fuori
dalla chiesa. I monaci l'avevano chiusa dentro l’imponente altare
di marmo e solamente l'abate era in possesso della chiave in grado di
aprire il piccolo antro che la custodiva.
“Forse un giorno riuscirò a vederla.
Chissà, magari rimane ancora dell'acqua Santa al suo interno.”
Cesare era quasi incantato dall'idea che esistesse una sostanza
simile, e forse anche Alfredo sarebbe potuto guarire in breve tempo
utilizzandola.
Seguito da Durante varcò il portone
della sala comune dove gli altri monaci li stavano aspettando per la
preghiera prima della cena.
Restavano liberi i primi due posti
vicino all’ingresso, così Cesare e Durante vi si accomodarono.
Accanto a loro sedevano rispettivamente Padre Raffaello e Padre
Germano che, non appena ebbero terminato le preghiere, spezzarono due
fette di pane e gliele porsero. Cesare accettò e per ringraziare
Germano annuì insistentemente con la testa, scandendo in silenzio il
labiale di «Grazie». In tutta risposta l’anziano monaco, ormai
quasi completamente sordo, voltò il capo bruscamente ed iniziò a
sorseggiare il suo brodo di verdure. Durante lo aveva avvertito del
carattere burbero del fratello, che andava peggiorando con l’avanzare
della sordità.
«Fate attenzione al brodo, è
bollente» sussurrò Raffaello. Era il cuoco dell’eremo, portava
una folta barba arricciata che arrivava a coprire anche parte delle
orecchie, dove terminava in due ciuffi incolti di peluria grigia.
La cena si concluse nel silenzio più
assoluto e i monaci si diressero ancora una volta verso la piccola
chiesetta per le preghiere serali. Una volta terminate, quando oramai
gli ultimi raggi del sole erano svaniti, tutti i fratelli fecero
ritorno ai loro alloggi al primo piano dell’eremo, per coricarsi
nelle rispettive celle.
Cesare li seguì. Entrato nella sua
spoglia stanzetta, restò per qualche minuto affacciato all’unica
piccola feritoia, ad ammirare il giardino, il movimento delle foglie
che si intravedeva appena grazie al tenue chiarore della luna: si
poteva scorgere il piccolo spazio dedicato al cimitero, in cui le
salme dei fratelli si riconciliavano con il terreno. All’altro lato
del giardino, erano invece appena visibili gli orti, in cui i monaci
coltivavano tutti i legumi necessari per la loro tavola.
Fu improvviso.
La vide allungarsi sotto la luce
lunare, diretta verso il cimitero.
Un’ombra si aggirava per il cortile,
quando tutti i fratelli dovevano essere nei loro alloggi.
“Dio, prego per la tua misericordia,
fa che non sia morto Alfredo”
Solitamente però venivano suonate le
campane quando un lutto colpiva una comunità monastica, mentre in
questo caso era evidente che il silenzio regnava sovrano.
L’ombra svanì in un angolo del
cortile dove la luna non arrivava a schiarire il terreno.
Cesare rimase in attesa qualche minuto
alla finestra, poi sentendo che il sonno iniziava ad annebbiargli la
ragione, ringraziò Dio per la giornata appena trascorsa e si sdraiò
sul suo piccolo materasso. Mentre si coricava, decise che doveva
avere avuto un abbaglio causato dalla stanchezza, dopotutto l’ombra
poteva essere un animale notturno che si aggirava in cerca di piccole
prede, come topi che cosi numerosi si aggiravano per le vicine
stalle.
“Dormi Cesare, non puoi diventare
paranoico dopo solo una settimana di convivenza, domani tutto sarà
nella normalità”
Prima che i fantasmi della sua storia
tornassero a tormentarlo il sonno lo strappò alla realtà.
Si svegliò di soprassalto all'alba. I
rintocchi delle campane, puntualissimi come al solito, segnavano
l'inizio della giornata per tutto l'eremo. Cesare riallacciò il saio
e si incamminò verso la chiesa per le preghiere mattutine. Una volta
concluse, venne subito raggiunto da Padre Adriano:
«Buongiorno Cesare!»
«Buong-»
«Oggi abbiamo un compito molto molto
importante, il tuo primo incarico!». La sua voce suonava fin troppo
entusiasta.
«Bene, di qualsiasi cosa si tratti, io
sarò molt-»
«Il medico ha chiesto ad Evaristo di
cercare informazioni nella biblioteca, tutto quanto si possa trovare
riguardo alla malattia di Alfredo, e noi gliele troveremo!»
«Benissimo, dove dobb-»
«Seguimi, seguimi!» lo incalzò.
Cesare non poté fare altro che
avviarsi dietro l'iperattivo monaco. Nonostante il fisico cadente del
confratello non proprio nel fiore dell'età, il suo passo era
decisamente spedito. A Cesare ricordò la buffa imitazione di una
marcia militare, i lunghi capelli del monaco che ondeggiavano a
destra e a sinistra, rimbalzando sulle spalle ad ogni passo.
Gli occhi di Adriano si muovevano in
continuazione come alla ricerca di qualcosa che il frate non riusciva
mai a trovare, e Cesare si era convinto alla fine che nemmeno lui
sapesse cosa cercava.
Arrivarono alla biblioteca dell'eremo,
proprio mentre l'abate Evaristo stava uscendo.
«Ah bene, siete arrivati. Ero entrato
a controllare che fosse tutto in ordine per la vostra ricerca. Ci
auguriamo tutti che riusciate a scovare qualche annotazione su questo
morbo, ne va della salvezza di Alfredo. Abbiate fede e troverete, Dio
è sempre con noi, anche in questi duri momenti. Alfredo ne è la
riprova, sente che in questo luogo è custodito il segreto della sua
guarigione, il Signore glielo ha fatto capire».
«Se c'è anche solo un richiamo al
morbo in queste pagine, lo troveremo!» Adriano era incontenibile nel
suo entusiasmo, la sua voglia di fare era contagiosa.
Si misero subito al lavoro, posando
sull'enorme tavolo della biblioteca varie pile di manoscritti che
erano stati prodotti e accumulati sin dalla fondazione dell'eremo,
circa sessant'anni prima.
Le ricerche durarono molto più di
quanto entrambi i confratelli avessero potuto immaginare. Giunto il
tramonto del secondo giorno di ricerche, Cesare e Adriano non erano
riusciti a trovare nessun riferimento al morbo nei manoscritti
redatti nei primi dieci anni di vita dell'eremo. Durante i due giorni
che avevano trascorso lavorando incessantemente, le condizioni di
Alfredo erano costantemente peggiorate, e il medico sbraitava sempre
più forte insistendo che venisse trasferito fuori da “Questo luogo
di rimbecilliti!”.
Poi, la mattina del terzo giorno di
ricerche, un colpo sul tavolo interruppe bruscamente la lettura
frenetica di Adriano.
«Qui! Qui c'è qualcosa!»
Cesare mostrò al compagno quello che
aveva trovato. Scritti malamente da un fratello vissuto circa
quarant'anni prima di loro erano riportati i medesimi sintomi che
presentava Alfredo: febbre altissima, unita a crisi di spasmi
muscolari involontari che costringevano l'ammalato a giorni e giorni
di agonia, avevano preceduto la morte sopraggiunta dopo un'ultima
violenta crisi resa fatale dall'indebolimento progressivo.
«Perfetto! Lo porto subito ad
Evaristo!»
Adriano sparì di corsa dietro la porta
della biblioteca portando con lui il manoscritto.
Rimasto solo Cesare decise di
continuare a sfogliare i manoscritti più recenti, sperando di
trovare qualche altro riferimento che potesse rivelarsi utile.
Rintracciò la data di morte del monaco
stroncato dal morbo in un manoscritto che fungeva da necrologio:
“Anno del decesso: 1686, causa non riconducibile, morbo non
riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza
cadere nel blasfemo”.
“Se avessero continuato gli studi
magari adesso sapremmo cosa fare, a volte sembra che per la salvezza
dell'anima si debba per forza rifiutare la salvezza terrena. Signore
mio, cosa dovremmo fare? Se questo morbo si ripresentasse in futuro
non sarebbe meglio studiarlo a fondo, anche sul corpo di un fratello
che ci ha lasciato? Non sarebbe comunque fatto in nome Tuo? O forse è
una punizione per la nostra incapacità di amarti pienamente?”
Afferrò un altro tomo e ricominciò a sfogliare le pagine.
«Non può essere...» Per la sorpresa
aveva parlato ad alta voce.
“Anno del decesso: 1700, causa non
riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare
ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Ebbe un presentimento orribile.
Continuò a leggere solo i necrologi:
“Anno del decesso: 1716, causa non riconducibile, morbo non
riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza
cadere nel blasfemo.”
Fece un rapido conto degli anni che
separavano ogni morte.
Si alzò di scatto dalla sedia.
“Devo vedere Alfredo.”