Dateci la vostra opinione, e a breve pubblicheremo anche la seconda parte!
Enjoy!
PROLOGO
Parte
Prima
1630,
Nibizzola, Piccolo villaggio rurale nella campagna milanese.
Peste.
Questa era la parola più sussurrata e temuta in tutta Europa, ed il
piccolo villaggio di Nibizzola non faceva eccezione. Il male nero
imperversava, bussava di casa in casa e non c’era città, villaggio
o sperduta campagna al riparo dal dilagare dell’inarrestabile scia
di morte.
Il
paese era in profonda rovina. Nessuno usciva più di casa e la
maggior parte di coloro che fino a pochi mesi erano gli abitanti di
Nibizzola, in quel momento era riversa per le strade come cadavere.
Il fetore aleggiava in ogni angolo ed in ogni vicolo. Gli unici
esseri viventi che animavano questo cimitero a cielo aperto erano
banditi coperti di stracci, o vagabondi ancor peggio in arnese alla
disperata ricerca di cibo. Qualche raro medico coraggioso ancora si
aggirava per le vie, le inquietanti maschere adunche calate sul volto
nel vano tentativo di evitare il contagio, si affaccendavano di casa
in casa offrendo aiuto e un lampo di speranza.
Tuttavia,
nonostante i loro sforzi molte erano le persone che a Nibizzola
avevano perso tutto; fra queste Costante Sarachi a cui la peste non
aveva lasciato nulla, nè la famiglia, nè un tetto sotto cui vivere.
Le
poche terre che possedeva, ereditate di generazione in generazione
dai Sarachi che furono prima di lui, le aveva cedute alla famiglia
Figini, in cambio della mano della loro unica figlia, Giuditta, di
cui era follemente innamorato, ma soprattutto in cambio di
ospitalità. Dopotutto, rimasto solo alla morte del fratello, seguita
a quella dei genitori, non sarebbe più in stato in grado di
occuparsi di quei possedimenti.
Il
suo amore per Giuditta era
contrastato dai genitori di lei, che avevano accettato il ragazzo
sotto il loro tetto manifestando tutta la loro controvoglia, attratti
solamente dal dono del piccolo terreno che questi aveva ereditato.
Il
fato di Costante però,
gli avrebbe riservato un ultimo scherzo crudele.
I
primi giorni in casa Figini erano trascorsi tranquillamente
contrariamente alle nere previsioni di Costante. I genitori di
Giuditta erano contadini ritrovatisi dal mattino alla sera piccoli
possidenti, e passavano molto tempo immersi in un'inutile lavoro di
contabilità volto a catalogare le poche risorse sopravvissute alla
carestia, il che regalava a Costante una certa quantità di momenti
di sereno silenzio.
Una
monotona quotidianità che si sarebbe sgretolata con la rapidità con
cui l’inverno inghiotte le pigre giornate dell’estate.
Accadde
tutto in una mattinata carica di pioggia: Costante si era svegliato
coperto da uno strato di sudore che non faceva presagire nulla di
buono.
Cercò
di mettersi a sedere sul letto, scoprendo che ogni movimento
aumentava il suo malessere. Percepiva come un fastidio sotto le
ascelle, che andava e veniva quando muoveva le braccia.
Sforzandosi
di superare il dolore che gli provocava il movimento, si toccò la
fronte. Era bollente. Costante non era particolarmente istruito, e
non era certo un medico, ma aveva visto quei sintomi troppe volte sui
suoi cari perduti nel nero male, perché potesse fingere con se
stesso che potesse trattarsi di una semplice febbre, e al sudore
prodotto nella notte si aggiunse ben presto quello causato
dall'ansia.
Che
cosa poteva fare?
Valutò
tutte le opzioni possibili, ma pian
piano in lui si insinuava sempre più la certezza che fosse
inevitabilmente giunta la sua ora.
Il
pensiero travolgeva la sua mente riempiendolo di terrore.
Come
avrebbero reagito i genitori della sua Giuditta scoprendo di avere
un appestato in casa?
Ecco,
l'aveva pensato, e già la realtà di questa parole si insinuava in
lui dolorosa come una lama: si era definito “appestato”, e
guardandosi le enormi pustole che gli erano comparse sulla pelle
dell'inguine non poteva essere altrimenti.
Proprio
mentre stava meditando su come ingannare lo sguardo vigile dei
coniugi Figini, ecco che il padre di Giuditta irruppe nella stanza
per svegliarlo.
«Allora
tanghero, non è mica ora che vieni giù da quel - » il contadino
rimase impietrito quando vide Costante coi calzoni calati che si
fissava la zona inguinale. Ci vollero pochi secondi perché l'uomo
realizzasse la situazione. Si precipitò fuori dalla stanza urlando a
squarciagola il nome della moglie «Maria! Maria! Vieni subito qui!
Il tanghero s'è preso la peste!»
Costante
vide crollare quegli ultimi tenui appigli alla speranza che si era
costruito: era spacciato. Anche se Giuditta si fosse opposta con
tutta sé stessa al volere dei genitori, sarebbe finito fuori casa, a
morire per strada.
Non
voleva morire, ma più di tutto non voleva
essere abbandonato a quel destino da solo.
Quando
venne raccolto,
sollevato come un peso morto da mani rudi e forti, non era però più
in grado di opporre alcuna resistenza.
Rimase
così, inerte, il corpo una volta forte e vitale abbandonato come
peso morto sulla spalla del monatto che era venuto a prenderlo;
riusciva a vedere a malapena, evanescente attraverso il velo della
febbre e quello delle lacrime, la figura del “suocero” sulla
porta di casa: pensò che gli sarebbe piaciuto definire così il
vecchio un giorno.
Le
grida di Giuditta gli giungevano come echi lontani quando venne
gettato per terra e assaggiò con le labbra il sapore amaro dei
ciottoli di pietra ricoperti di polvere della strada.
«Ah!
Non hai nemmeno un soldo addosso, e speri che io ti porti al
lazzaretto del paese qui vicino?! Scordatelo.»
Capì
di trovarsi sulla
strada principale del villaggio, era l'unica costruita in quella
maniera per facilitare il passaggio dei carri verso la piazza del
mercato. Sentì i passi del suo “benefattore” che si
allontanavano. Tentò di sollevarsi, scoprendosi inaspettatamente
pesante e goffo, quando la febbre prese il sopravvento e con essa
arrivarono anche i primi segni del delirio. La volontà di Costante
ormai si era persa quando barcollando caracollò su un ostacolo
inesistente, battendo violentemente la testa per terra. Si abbandonò
stremato alle visioni, che sempre più insistenti gli offuscavano la
mente.
Quando
le forze glielo consentirono, si
girò supino: voleva sentire l’aria sul viso, non ne poteva più
dell’arido sapore della terra sulle labbra, la sete era
insopportabile e la testa gli pulsava senza sosta mentre un rivolo di
sangue gli colava sulla fronte dove l’acciottolato l’aveva
segnata.
Tutta
la sua vista fu inglobata nel grigio cupo del cielo: si aspettava da
un momento all'altro di sentire il viso bagnato dalla pioggia.
In
quel grigiore imperante però, non fu pioggia che vide cadere verso
la linea dell’orizzonte.
Guardando
la sfera celeste illuminare il cielo gli vennero in mente le parole
di Giuditta, in una tranquilla sera d'estate: «Una stella cadente,
esprimi un desiderio!» aveva detto con la sua voce di bambina quasi
donna.
L’unico
desiderio che invadeva la sua mente febbricitante era quello di
tornare da lei, correndole incontro con il corpo forte che ricordava
di aver posseduto prima che quel nero male gli offuscasse la mente,
un corpo sano e vitale che rispondeva suoi comandi, con cui avrebbe
potuto abbracciarla di nuovo. Così, nel delirio della febbre,
Costante iniziò a trascinarsi lentamente verso il punto in cui era
scomparso l’oggetto luminoso caduto dal cielo.
Si
mise ad annaspare nel terreno, le deboli braccia che cercavano di
trasportare il suo corpo ormai inerte sempre più avanti, verso
nemmeno lui sapeva cosa.
Infine,
dopo quelle che gli parvero
ore ed ore di sforzi estenuanti, si ritrovò a strisciare in mezzo ai
campi di grano abbandonati, un'arida distesa nera, come una cicatrice
della terra.
Le
sue mani sanguinanti continuavano, come in preda ad uno spasmo
infinito, ad afferrare la terra umida davanti a sé per farsi strada.
Tutto
stava diventando
terribilmente caldo, ma Costante lo percepiva appena, ogni atomo del
suo corpo concentrato nello sforzo di avanzare mentre la febbre gli
attenuava i sensi impedendogli persino di sentire appieno il dolore
delle ferite e del calore.
Improvvisamente
le sue mani non trovarono più il terreno, annasparono senza riuscire
ad afferrarsi a nulla, non era che un goffo corpo ormai incapace di
ritrovare l’equilibrio, e così il ragazzo rotolò malamente per
una ripida discesa.
Quando
si fermò, aprì a stento gli occhi e vide a pochi passi da lui la
stella, calda e luminosa.
In
quel momento la mente di Costante cedette, e tutto fu buio.
Nessun commento:
Posta un commento