domenica 13 maggio 2012

Prima parte del racconto "La stella"

Come annunciato nel primo post ora pubblichiamo la prima parte del racconto scritto da Ksinin e Gambero intitolato "La stella". La versione che riportiamo di seguito è passata anche dall'editing della nostra collaboratrice Sara, che si è prodigata nel renderlo letterariamente leggibile.


Dateci la vostra opinione, e a breve pubblicheremo anche la seconda parte!




Enjoy!

PROLOGO

Parte Prima

1630, Nibizzola, Piccolo villaggio rurale nella campagna milanese.

Peste. Questa era la parola più sussurrata e temuta in tutta Europa, ed il piccolo villaggio di Nibizzola non faceva eccezione. Il male nero imperversava, bussava di casa in casa e non c’era città, villaggio o sperduta campagna al riparo dal dilagare dell’inarrestabile scia di morte.
Il paese era in profonda rovina. Nessuno usciva più di casa e la maggior parte di coloro che fino a pochi mesi erano gli abitanti di Nibizzola, in quel momento era riversa per le strade come cadavere. Il fetore aleggiava in ogni angolo ed in ogni vicolo. Gli unici esseri viventi che animavano questo cimitero a cielo aperto erano banditi coperti di stracci, o vagabondi ancor peggio in arnese alla disperata ricerca di cibo. Qualche raro medico coraggioso ancora si aggirava per le vie, le inquietanti maschere adunche calate sul volto nel vano tentativo di evitare il contagio, si affaccendavano di casa in casa offrendo aiuto e un lampo di speranza.
Tuttavia, nonostante i loro sforzi molte erano le persone che a Nibizzola avevano perso tutto; fra queste Costante Sarachi a cui la peste non aveva lasciato nulla, nè la famiglia, nè un tetto sotto cui vivere.
Le poche terre che possedeva, ereditate di generazione in generazione dai Sarachi che furono prima di lui, le aveva cedute alla famiglia Figini, in cambio della mano della loro unica figlia, Giuditta, di cui era follemente innamorato, ma soprattutto in cambio di ospitalità. Dopotutto, rimasto solo alla morte del fratello, seguita a quella dei genitori, non sarebbe più in stato in grado di occuparsi di quei possedimenti.
Il suo amore per Giuditta era contrastato dai genitori di lei, che avevano accettato il ragazzo sotto il loro tetto manifestando tutta la loro controvoglia, attratti solamente dal dono del piccolo terreno che questi aveva ereditato.
Il fato di Costante però, gli avrebbe riservato un ultimo scherzo crudele.

I primi giorni in casa Figini erano trascorsi tranquillamente contrariamente alle nere previsioni di Costante. I genitori di Giuditta erano contadini ritrovatisi dal mattino alla sera piccoli possidenti, e passavano molto tempo immersi in un'inutile lavoro di contabilità volto a catalogare le poche risorse sopravvissute alla carestia, il che regalava a Costante una certa quantità di momenti di sereno silenzio.
Una monotona quotidianità che si sarebbe sgretolata con la rapidità con cui l’inverno inghiotte le pigre giornate dell’estate.

Accadde tutto in una mattinata carica di pioggia: Costante si era svegliato coperto da uno strato di sudore che non faceva presagire nulla di buono.
Cercò di mettersi a sedere sul letto, scoprendo che ogni movimento aumentava il suo malessere. Percepiva come un fastidio sotto le ascelle, che andava e veniva quando muoveva le braccia.
Sforzandosi di superare il dolore che gli provocava il movimento, si toccò la fronte. Era bollente. Costante non era particolarmente istruito, e non era certo un medico, ma aveva visto quei sintomi troppe volte sui suoi cari perduti nel nero male, perché potesse fingere con se stesso che potesse trattarsi di una semplice febbre, e al sudore prodotto nella notte si aggiunse ben presto quello causato dall'ansia.
Che cosa poteva fare?
Valutò tutte le opzioni possibili, ma pian piano in lui si insinuava sempre più la certezza che fosse inevitabilmente giunta la sua ora.
Il pensiero travolgeva la sua mente riempiendolo di terrore.
Come avrebbero reagito i genitori della sua Giuditta scoprendo di avere un appestato in casa?
Ecco, l'aveva pensato, e già la realtà di questa parole si insinuava in lui dolorosa come una lama: si era definito “appestato”, e guardandosi le enormi pustole che gli erano comparse sulla pelle dell'inguine non poteva essere altrimenti.
Proprio mentre stava meditando su come ingannare lo sguardo vigile dei coniugi Figini, ecco che il padre di Giuditta irruppe nella stanza per svegliarlo.
«Allora tanghero, non è mica ora che vieni giù da quel - » il contadino rimase impietrito quando vide Costante coi calzoni calati che si fissava la zona inguinale. Ci vollero pochi secondi perché l'uomo realizzasse la situazione. Si precipitò fuori dalla stanza urlando a squarciagola il nome della moglie «Maria! Maria! Vieni subito qui! Il tanghero s'è preso la peste!»
Costante vide crollare quegli ultimi tenui appigli alla speranza che si era costruito: era spacciato. Anche se Giuditta si fosse opposta con tutta sé stessa al volere dei genitori, sarebbe finito fuori casa, a morire per strada.
Non voleva morire, ma più di tutto non voleva essere abbandonato a quel destino da solo.
Quando venne raccolto, sollevato come un peso morto da mani rudi e forti, non era però più in grado di opporre alcuna resistenza.
Rimase così, inerte, il corpo una volta forte e vitale abbandonato come peso morto sulla spalla del monatto che era venuto a prenderlo; riusciva a vedere a malapena, evanescente attraverso il velo della febbre e quello delle lacrime, la figura del “suocero” sulla porta di casa: pensò che gli sarebbe piaciuto definire così il vecchio un giorno.
Le grida di Giuditta gli giungevano come echi lontani quando venne gettato per terra e assaggiò con le labbra il sapore amaro dei ciottoli di pietra ricoperti di polvere della strada.
«Ah! Non hai nemmeno un soldo addosso, e speri che io ti porti al lazzaretto del paese qui vicino?! Scordatelo.»
Capì di trovarsi sulla strada principale del villaggio, era l'unica costruita in quella maniera per facilitare il passaggio dei carri verso la piazza del mercato. Sentì i passi del suo “benefattore” che si allontanavano. Tentò di sollevarsi, scoprendosi inaspettatamente pesante e goffo, quando la febbre prese il sopravvento e con essa arrivarono anche i primi segni del delirio. La volontà di Costante ormai si era persa quando barcollando caracollò su un ostacolo inesistente, battendo violentemente la testa per terra. Si abbandonò stremato alle visioni, che sempre più insistenti gli offuscavano la mente.
Quando le forze glielo consentirono, si girò supino: voleva sentire l’aria sul viso, non ne poteva più dell’arido sapore della terra sulle labbra, la sete era insopportabile e la testa gli pulsava senza sosta mentre un rivolo di sangue gli colava sulla fronte dove l’acciottolato l’aveva segnata.
Tutta la sua vista fu inglobata nel grigio cupo del cielo: si aspettava da un momento all'altro di sentire il viso bagnato dalla pioggia.
In quel grigiore imperante però, non fu pioggia che vide cadere verso la linea dell’orizzonte.
Guardando la sfera celeste illuminare il cielo gli vennero in mente le parole di Giuditta, in una tranquilla sera d'estate: «Una stella cadente, esprimi un desiderio!» aveva detto con la sua voce di bambina quasi donna.
L’unico desiderio che invadeva la sua mente febbricitante era quello di tornare da lei, correndole incontro con il corpo forte che ricordava di aver posseduto prima che quel nero male gli offuscasse la mente, un corpo sano e vitale che rispondeva suoi comandi, con cui avrebbe potuto abbracciarla di nuovo. Così, nel delirio della febbre, Costante iniziò a trascinarsi lentamente verso il punto in cui era scomparso l’oggetto luminoso caduto dal cielo.

Si mise ad annaspare nel terreno, le deboli braccia che cercavano di trasportare il suo corpo ormai inerte sempre più avanti, verso nemmeno lui sapeva cosa.
Infine, dopo quelle che gli parvero ore ed ore di sforzi estenuanti, si ritrovò a strisciare in mezzo ai campi di grano abbandonati, un'arida distesa nera, come una cicatrice della terra.
Le sue mani sanguinanti continuavano, come in preda ad uno spasmo infinito, ad afferrare la terra umida davanti a sé per farsi strada.
Tutto stava diventando terribilmente caldo, ma Costante lo percepiva appena, ogni atomo del suo corpo concentrato nello sforzo di avanzare mentre la febbre gli attenuava i sensi impedendogli persino di sentire appieno il dolore delle ferite e del calore.
Improvvisamente le sue mani non trovarono più il terreno, annasparono senza riuscire ad afferrarsi a nulla, non era che un goffo corpo ormai incapace di ritrovare l’equilibrio, e così il ragazzo rotolò malamente per una ripida discesa.

Quando si fermò, aprì a stento gli occhi e vide a pochi passi da lui la stella, calda e luminosa.
In quel momento la mente di Costante cedette, e tutto fu buio.

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