PROLOGO
Parte Terza
1730, Nibizzola, piccolo paese della campagna milanese.
La carrozza avanzava lentamente sulla strada dissestata,
battuta da numerosi viaggiatori che tutti i giorni andavano e tornavano dal
centro del paese.
Gli scossoni provocati dalle asperità del terreno sotto le
ruote facevano continuamente sobbalzare l’unico passeggero, che malamente
tentava di mantenersi composto, sistemato com’era sugli stretti e scomodi
sedili, scarsamente imbottiti e rivestiti da un ormai logoro tessuto rossastro.
Passandosi una mano sul viso, l’uomo lanciò uno sguardo al
cielo che si imbruniva sempre più, lasciando poco alla volta spazio alla sera.
“L'eremo sarà sicuramente chiuso ormai” pensò Padre Cesare.
Aveva ormai compiuto i trentadue anni, Padre Cesare, un uomo
alto e dal fisico asciutto, con il viso adornato da una barba non ancora
imbiancata dal tempo, ora portata rada a causa dei disagi riservatigli dal
lungo viaggio verso la sperduta Nibizzola.
Tratto distintivo che condivideva con tutta la sua famiglia,
era la folta chioma di capelli neri, sempre indomabili, tanto che fin da
bambino persino sua madre aveva preso a chiamarlo “spaventapasseri”.
«Per favore, mi porti alla locanda più vicina, ormai l'eremo
avrà già chiuso i portoni, e non voglio farle fare un giro a vuoto».
Il cocchiere non rispose ma si limitò a un cenno di assenso.
Probabilmente anche lui era stanco di una compagnia così
taciturna come quella del frate.
Solitamente Padre Cesare non era così chiuso in sé stesso,
ma dopo il fatto increscioso che lo aveva visto coinvolto, preferiva evitare di
dare troppa confidenza a chiunque.
«Siamo arrivati.»
Il commento del cocchiere ruppe il corso silenzioso dei suoi
pensieri e lo fece trasalire. Si forzò ad alzarsi dallo scomodo sedile, le ossa
doloranti per la lunga costrizione in uno spazio cosi angusto, e si affrettò a
scendere, barcollando, centrando in pieno una pozzanghera di fango col piede
sinistro. Non portava altro che un leggero mantello sopra al saio, e calzava i
leggeri sandali di pelle del suo ordine. Il contatto con l’acqua gelida e
fangosa, il vento pungente che lo investì mentre recuperava il suo scarno
bagaglio dalla carrozza, gli provocarono uno spasmo involontario, un brivido
gli corse lungo la schiena e lo fece saltellare emettendo un versetto
contrariato poco degno del suo alto ufficio.
Il viaggio era stato pagato interamente dal monastero da cui
proveniva, inclusa anche una piccola riserva di denaro di cui era stato dotato,
da usare per gli eventuali imprevisti in cui sarebbe potuto incorrere lungo la
strada per l’eremo di Nibizzola.
Si congedò con poche parole dal cocchiere benedicendolo e si
diresse immediatamente al piccolo edificio che fungeva da locanda del paese.
Il freddo autunnale si faceva sentire, il cielo non
prometteva nulla di buono con il suo grigiore compatto, così Padre Cesare si
affrettò ad entrare. Varcata la soglia venne investito da un rassicurante
tepore, che lo fece sentire subito meglio.
La stanza in cui era entrato non era certo lussuosa,
illuminata malamente da due miseri candelabri che pendevano da un grigio
soffitto di vecchie assi di legno, la penombra dava al tutto un'aria quasi
spettrale.
Un bancone era stato sistemato di fronte all'entrata, in
modo che il proprietario potesse sempre osservare l'ingresso e gli avventori
che lo attraversavano, ma la stanza fungeva anche da sala comune e vi si
ammassavano un paio tavoli evidentemente attrezzati per consumare i pasti. Un
leggero odore di stufato si spandeva dalla cucina, collocata in una stanza
appena sul retro.
Il proprietario si rivelò essere un'enorme donna,
affaccendata con piglio caparbio sul bancone, ne strofinava il legno con uno
straccio reso quasi nero dall’uso.
Padre Cesare si avvicinò, appena lo vide la locandiera si
affrettò a gettare lo straccio in angolo. Lo squadrò con la sua enorme faccia,
sotto la quale facevano capolino ben tre menti di carne superflua.
«Buona sera...» osservando il saio da monaco che Cesare
portava sotto il mantello si affrettò a concludere la frase «...padre.»
«Buona sera» rispose lui, aggiungendo «Temo che dovrò
passare la notte qui, l'eremo dovrebbe già aver serrato le sue porte a
quest'ora, giusto?»
La donna si girò, lanciò un urlo con quella sua voce
profonda, facendo trasalire gli unici due avventori intenti a consumare il loro
pasto silenzioso ai tavoli della sala. «Tonio! Scendi che ce n'è un altro!».
Non trascorse che un istante dall’urlo della locandiera, che
si affacciò, da una rampa di scalini situata in fondo alla stanza, un pallido
ragazzino dall’aria annoiata.
Padre Cesare lo osservò arrivare, strascicando i piedi con
passo incerto, sollevare il suo fagotto e portarlo al piano di sopra.
Una volta che il ragazzino fu sparito al piano superiore,
Cesare si rivolse alla donna:
«Spero che questo basti anche per un piatto del suo stufato,
gentile signora, il viaggio è stato lungo e faticoso.» prese dalle tasche tutto il denaro che aveva
e lo rovesciò sul bancone.
La locandiera raccolse con attenzione tutte le monete, una
per una, mentre sottovoce contava.
Alla fine sentenziò: «Basta eccome. Tenga il resto però.»
Cesare rifiutò con garbo «A me non servono, li usi piuttosto
per il suo bambino.»
«Grazie allora» rispose lei, e senza troppe cerimonie si
cacciò tutto in tasca, poi continuò «Se vuole sedersi a uno dei tavoli, tra
poco le porto la cena, padre».
Il monaco si voltò, lanciò uno sguardo nella sala per
scegliere dove sedersi, trovando con disappunto che gli unici due tavoli erano
occupati, ognuno da un solo avventore. Evidentemente entrambi erano poco in
vena di reciproca compagnia.
Uno era un uomo robusto, tozzo e dall'aspetto decisamente
poco invitante: indossava una camicia con larghe macchie di vino sul davanti ed
enormi aloni di sudore sotto le ascelle. Tutto il corpo, a partire dalla pelle
fino alle unghie, era costellato da incrostazioni di sporco nerastro. Stava
seduto storto con una gamba penzolante e guardava con una punta di disprezzo
Padre Cesare. Quando incrociarono lo sguardo il tizio sorrise beffardo
mostrando una fila di denti in legno oramai marcito. Una cicatrice gli
deturpava la gola, e formava in mezzo alla barba incolta un secondo, malsano
sorriso.
L'altro individuo invece si presentava in maniera
completamente diversa: già la postura composta faceva intuire che si trattasse
di una persona di rango sociale di tutt’altra risma rispetto al primo
avventore.
Portava una giacca con sottilissimi intarsi d'argento sulle
cuciture, sotto la quale un panciotto ben riempito faceva capolino, anche
questo coordinato con la giacca.
Padre Cesare non ebbe dubbi e si avvicinò a quest'ultimo,
prendendo posto di fronte a lui.
Mentre spostava la sedia per accomodarsi, notò quello che
sembrava un bagaglio lasciato per terra, una borsa.
“Forse non si ferma per la notte” pensò Cesare.
«Buona sera padre» lo salutò il distinto signore sollevando
lo sguardo dal suo piatto di stufato.
Padre Cesare lo guardò in faccia: pareva abbastanza anziano,
i pochi capelli ormai ingrigiti dall'età, e portava le basette perfettamente
rasate. Gli occhi apparivano stanchi ma sereni, segno di una dura giornata di
lavoro ormai giunta al termine.
«Buona sera» rispose Padre Cesare.
«Come mai fuori dall'eremo? Mi avevate detto che avete
smesso per ora con il commercio di spezie e -»
Cesare lo interruppe subito «Questo perché io non sono del
monastero, o meglio, ne farò parte da domani non appena apriranno i portoni».
«Ah, capisco. Beh, deve scusare la mia curiosità ma sa,
normalmente da quel posto entrano ed escono pochissime persone; io sono fra
quelle, in quanto medico. La cosa più assurda di questi tempi è che si ammalano
più i monaci che vivono isolati che la gente comune del paese. Qui negli ultimi
anni le malattie più gravi che ho visto sono i soliti raffreddori invernali,
nulla di più. Sembra quasi che il miracolo che dicono sia avvenuto tanti anni
fa continui ancora imperterrito la sua opera benefica, ma io non credo in
queste cose. Coincidenze, nulla di più. Senza offesa ovviamente, padre.»
Padre Cesare non aveva nessuna intenzione di perdersi in
chiacchiere con uno sconosciuto, per di più con qualcuno che poteva venire in
breve tempo a conoscenza della causa per cui era stato trasferito a Nibizzola.
E’ noto quanto le voci viaggino in fretta anche nei monasteri isolati.
«Dio lascia sempre liberi di scegliere, per cui non mi reca
assolutamente offesa.»
Lo stufato venne servito dal ragazzino, che portò i piatti
al tavolo con il suo passo pigro e strascicato.
Cesare sperava di poter consumare il pasto in totale
tranquillità e silenzio: purtroppo il suo commensale la pensava diversamente.
Attese infatti che il monaco finisse le preghiere prima
della cena, e poi partì con le domande:
«Allora padre, cosa la porta qui a Nibizzola?»
“Nulla che a te possa interessare, visto che domani
probabilmente ti dimenticherai di me non appena riprenderai a visitare persone,
medico. A meno che tu non scopra la verità. In quel caso parlerai di me a tutti
quelli che incontrerai, probabilmente. E' sempre così.”
Il monaco disse invece: «La Fede è una cosa che va coltivata
e deve sempre crescere nell'arco della vita, poiché essa ci permette di
arrivare ad una comprensione più piena dell'esistenza avvicinandoci al Signore.
Ho sentito che la mia fede stava iniziando a vacillare, per questo ho deciso di
venire ad isolarmi nell'eremo insieme ai miei santi fratelli. E da domani vivrò
lì.»
Il medico rimase un attimo imbambolato fissando Padre
Cesare. Poi si riscosse e rispose «Ah, capisco. Quindi anche a voi di tanto in
tanto viene a mancare la fede eh? Magari potessimo, noi persone normali,
operare delle soluzioni tanto radicali nelle nostre vite, prendere e andare
come ci pare! Ma il lavoro è lavoro, io cerco di fare il bene fisico delle
persone e lei quello... quello...»
«Quello spirituale» concluse Padre Cesare accennando a un
sorriso.
«Spirituale, giusto, giusto.»
Conclusero la cena in silenzio, con grande sollievo di
Cesare.
Quando i piatti furono vuoti, il medico si alzò e recuperò
la sua borsa da terra, poi si rivolse un'ultima volta al monaco: «Beh, s'è
fatto tardi. Se destino vuole ci rivedremo all'eremo, sperando che quel
fraticello riesca a superare la notte».
Padre Cesare si alzò dopo che il medico fu uscito dalla
locanda, dirigendosi verso il bancone ma trovandolo vuoto.
«Le stanze sono su per gli scalini, la sua è la prima sulla
sinistra, se quella polenta di mia
moglie si sbriga a sistemarla.»
A parlare era stato il tizio dall’aria poco raccomandabile
seduto all'altro tavolo, che si alzò e andò a sistemarsi dietro il bancone.
Cesare cercò di cancellare l’espressione stupita dal suo volto e subito si
avviò verso le scale biascicando un «Oh, grazie».
Arrivato al piano superiore trovò la stanza sulla sinistra
con la porta socchiusa.
Un leggero odore di muffa permeava tutto l’interno della
camera, che si presentava assai spoglia persino per le abitudini di un monaco.
La locandiera stava riassestando il letto, composto da poche
assi e un sottile materasso, che probabilmente sarebbe servito a poco nel
rendere più comodo il riposo.
Per riscaldare l'ambiente era stato collocato appena accanto
alla porta un piccolo vaso con dentro delle braci ardenti; Cesare sperò che
bastassero per tutta la notte.
La donna si congedò e prima che si chiudesse alle spalle la
porta lui la ringraziò benedicendo lei e il figlio.
Era esausto, le fatiche del viaggio lo avevano stremato,
così iniziò subito le preghiere notturne ultimandole forse troppo rapidamente,
e si coricò sul logoro materasso, trovandolo persino più comodo di quel che
l’apparenza suggeriva.
Non sapeva che tipo di accoglienza avrebbe trovato
l'indomani all'eremo.
Temeva che tutti lo trattassero come una specie di
appestato, dopo quello che gli era successo, ma d'altronde non sapeva nemmeno
cosa era stato riferito della sua storia nella lettera che annunciava il suo
arrivo.
Alla fine anche pensare gli risultò faticoso, così scivolò senza
accorgersene in un sonno profondo e senza sogni.
Si svegliò alle prime luci all'alba. La stanza era diventata
molto fredda, le braci completamente spente, Cesare decise quindi di alzarsi
subito e si vestì quanto più rapidamente poté, gli arti ancora intorpiditi dal
sonno.
Riassettato il suo bagaglio, uscì nel corridoio e scese le
scale, trovando il rozzo oste che stava pulendo i tavoli dove avevano cenato la
sera prima. «Buongiorno, dormito bene padre?»
«Splendidamente. Ora dovete scusarmi ma preferirei
raggiungere subito l'eremo. Che Dio vi benedica, e andate in pace».
L'uomo accennò un segno della croce «Grazie padre» poi
aggiunse con un ghigno «e stia attento in mezzo a quei rinchiusi, sia mai che
la solitudine gli abbia dato alla testa».
Padre Cesare non rispose, si avviò con un cenno di saluto
alla porta e poi con passo deciso iniziò la lunga camminata prima attraverso e
poi fuori dal paese, verso l'eremo.
Passando accanto alla piazza, notò una grossa statua situata
proprio al centro: rappresentava due persone. Incuriosito si avvicinò per
osservarla meglio.
In piedi, si ergeva alta la figura di un uomo nel fiore
degli anni, versava da un'ampolla stretta nella mano destra quella che pareva
dell'acqua sulla bocca del secondo personaggio, inginocchiato in atto di
supplica, il volto bloccato in una perenne disperata preghiera.
Padre Cesare lesse l'iscrizione posta alla base:
“Qui visse San Costante Sarachi da Nibizzola, colui che
mondò questo paese dal nero male che tanti
ha portato via. L'acqua santa con cui ripulì dalle malattie e dai
peccati questa gente è custodita nell'eremo a lui dedicato”.
Padre Cesare alzò lo sguardo: oltre la statua, appena fuori
dalle porte del paese, si scorgevano in lontananza le mura della sua nuova casa,
l'Eremo di San Costante.
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