Come richiesto da molti lettori ripubblichiamo qui in versione riveduta e corretta l'intero racconto "La stella" in formato pdf, speriamo sia leggibile magari anche su un tablet e similari in modo da renderne più comodo l'uso.
Enjoy!
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giovedì 1 novembre 2012
martedì 21 agosto 2012
Settima e ultima parte del racconto "La stella"
Ebbene, siamo giunti alla fine di questo primo racconto. Gli esami hanno portato via molto più tempo del previsto, da qui l'enorme tempo intercorso dall'ultimo capitolo. Grazie come sempre a Sara per l'editing!
Siamo veramente giunti alla fine.
O forse no?
Enjoy!
Siamo veramente giunti alla fine.
O forse no?
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venerdì 6 luglio 2012
Sesta parte del racconto "La stella"
Finalmente ce l'abbiamo fatta! Ci scusiamo per l'enorme tempo che è passato dalla scorsa parte ma gli esami incombevano e incombono ancora. I ringraziamenti vanno come al solito a Sara per il suo lavoro di editing.
Enjoy!
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martedì 12 giugno 2012
Quinta parte del racconto "La stella"
Scusate il ritardo ma questa volta abbiamo dato fondo alla nostra fantasia e si è resa necessaria qualche pagina in più. I ringraziamenti vanno come al solito a Sara per il suo lavoro da editor che è davvero insostituibile!
Enjoy!
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PROLOGO
Parte
quinta
“Non
possono credere che siano solo coincidenze.” Padre Cesare stava
osservando pensieroso il giardino dalla piccola feritoia della sua
cella, come faceva ormai
da un paio di notti, prima di farsi prendere dal sonno.
“Evaristo
è convinto che le morti segnate nei necrologi non siano fra loro
collegate… Come può pensare una cosa del genere? I sintomi sono
gli stessi, persino le sentenze di morte sono identiche! Se nemmeno
un medico è in grado di riconoscere il morbo con precisione, come
può pretendere di trovare una cura nella nostra biblioteca, qui dove
tutto è affidato alla grazia divina!”
«Le
tue sono solo supposizioni, nate dal fatto che vuoi renderti utile,
Cesare. La tua passione è encomiabile ma non crucciarti cosi. Anche
se non siete riusciti a trovare qualcosa che possa curare il povero
Alfredo il vostro impegno è stato certamente riconosciuto dal
Signore, e vedrai che il vostro lavoro non sarà vano» Evaristo era
stato chiaro, non avendo trovato qualcosa di simile a una cura, ogni
altra presunta scoperta ricavata da quel mare di scartoffie era, nei
fatti, completamente inutile.
“No,
io credo che qualcosa sia accaduto qui, e stia accadendo di nuovo, le
date parlano chiaro. Circa ogni quindici anni qualcuno si ammala e
alla fine muore dello stesso morbo. Questo si ripresenta nello stesso
modo ogni volta, ma nessuno sembra farci caso. Non possono...” il
corso dei suoi pensieri si interruppe bruscamente. La vide. Di nuovo.
L'ombra
stavolta si muoveva lentamente, e Cesare poté osservarla meglio: era
una figura umana, ora la distingueva molto più chiaramente, e dal
momento in cui se ne rese conto, il tarlo della paura si insinuò in
lui.
“E' quella
dell'altra volta, non c'è dubbio.”
Ne era
certo ad un livello intimo, come se la sensazione di inquietudine che
trasmetteva la rendesse inconfondibile ai suoi sensi.
Questa
volta era emersa dall'area buia che era il piccolo
cimitero dell'eremo.
Cesare
la vide dirigersi con innaturale lentezza verso il porticato tra i
giardini e il cortile interno. Proprio quando stava per uscire dalla
sua visuale, l’ombra si fermò di colpo.
Cesare
non poté trattenere un
fremito. “Dio, fa che non mi abbia visto” pregò.
La
figura non era che un’ombra lontana, ma Cesare poté chiaramente
distinguere quando questa alzò la testa verso di lui.
Luce.
Gli
occhi erano come due piccoli soli che squarciarono il velo di buio
della cella di Cesare. “Signore, vengo a raggiungerti” pensò.
Non riusciva a distogliere lo sguardo, e la luce intorno a lui si
faceva sempre più intensa e calda. Improvvisamente si ricordò di
ciò che stava accadendo nell'eremo, del motivo per cui era stato
trasferito lì.
“No,
Dio, devo ancora fare ammenda per i miei peccati,
non è ancora giunto il mio momento, ti prego lasciami un altro po'
di tempo e potrai fare di me ciò che vorrai, ma prima voglio essere
un tuo strumento ancora una volta e portare il bene in questo mondo.
Dio, Ascoltami!” si ritrovò ad implorare silenziosamente mentre la
luce si faceva insopportabile.
E
Cesare seppe che per lui era la fine.
«NO!»
Si era
svegliato in un mare di
sudore: l'unico rumore che percepiva era il suo stesso rantolo
affannato, causato dallo spavento.
Si
vestì, continuando a tornare con la mente al sogno di quella notte,
non gli capitava da molto tempo di fare incubi.
“Ormai
è tardi, ed esso fa parte della notte” concluse infine. Ma i sogni
sono così, anche i più angosciosi scorrono via come acqua tra le
dita al levarsi del sole, e infatti anche l’ultimo ricordo residuo
di quelle immagini si perse nel vuoto, lasciando libero Cesare di
dedicarsi alla giornata.
Si recò come
sempre in chiesa per le preghiere mattutine; quando queste finirono
Durante gli andò subito incontro.
«Allora
Cesare, sei riuscito ad ottenere il permesso di vedere Alfredo?»
«Non ancora,
il medico ormai è intrattabile. Consente solo ad Evaristo di
entrare. Non è ancora riuscito a capire se il morbo può diffondersi
o meno.»
«Mi
sembrerebbe giusto farti entrare da lui almeno una volta, per
conoscerlo, visto che ti sei impegnato molto nel cercare una
possibile cura. Ne hai parlato con Evaristo?»
«Si,
ma non vuole che rischi di ammalarmi. Soprattutto non accetta le mie
ipotesi sul fatto che questo morbo si ripresenti a intervalli
regolari. Secondo quando riportato nei testi i sintomi sono
chiaramente sempre i medesimi e nessuno è mai stato contagiato,
oltre alla persona in questione.»
Durante
rimase a fissarlo per qualche secondo, i suoi occhi tradivano
un’intensa attività di pensiero. Alla fine il fratello rispose:
«Proverò a parlare io con Evaristo. Visto che siamo arrivati in
quest’eremo praticamente insieme, probabilmente ho più possibilità
di convincerlo a farti entrare.»
«Ti
ringrazio. Non faresti solo un favore a me, ma anche ad Alfredo.»
Durante si
congedò con un sorriso benevolo e si avviò sotto il porticato.
Cesare
si diresse verso la biblioteca, dove era stato definitivamente
assegnato come aiutante di Padre Adriano. Al contrario delle
aspettative di Cesare, il bibliotecario una volta nel suo ambiente
diveniva una persona silenziosa e concentrata, che non aveva nulla a
che fare col carattere focoso ed impulsivo che esibiva al di fuori.
Cesare
trascorse la giornata sistemando
pile di tomi, lasciati in eredità all’eremo da un vecchio nobile
di Nibizzola, deceduto da poco. Quando terminò di catalogare tutto,
nel tardo pomeriggio, Adriano lo congedò, lasciandolo libero di
andare a pregare in chiesa, in attesa della cena.
Mentre
scendeva le scale che davano sul porticato, la sua attenzione venne
attirata da una strana scena. A poca distanza da lui, nella penombra
del tramonto, Evaristo e Durante si fissavano, l’uno da un lato
all’altro del portico, i loro sguardi indecifrabili davano l’idea
che si fosse appena conclusa una conversazione alquanto accesa ma
nessuno dei due pronunciava più una parola. Cesare rimase bloccato
sulle scale, incapace di comprendere se ci fosse tensione o meno fra
i due. Alla fine Evaristo spezzò il silenzio:
«D’accordo»
disse, e si avviò con passo deciso verso la chiesa.
Cesare finì
di scendere gli ultimi gradini e salutò Durante: «Dante, tutto
bene?»
«Cesare,
ho una buona notizia. Sono riuscito a convincere l’abate a farti
visitare Alfredo» gli rispose questo sorridendo.
«Spero che
ciò non ti abbia creato problemi con Evaristo.»
«No, non
preoccuparti. Credo che alla fine anche lui abbia capito che questo
può aiutare ad alimentare la tua fede. Il Signore ti proteggerà,
non temere.»
«Grazie
Dante, ti sono debitore.»
«Tranquillo,
non esistono debiti tra fratelli» lo rassicurò.
«Vedrai
che il mio intervento non sarà vano»
«Non
ho dubbi » concluse
Durante, e si allontanò con un ultimo sorriso.
“E’
il momento” pensò.
Provava
una strana ansia per quello che si accingeva a fare, ma ci aveva
riflettuto a lungo negli ultimi giorni ed ora si scopriva più
determinato che mai.
Tutti i
fratelli erano già riuniti in chiesa per le preghiere serali, quando
si trovò, solo, davanti alla porta della cella di Alfredo, fermato
da una strana sensazione. Quando si accorse che la mano gli stava
tremando, bloccata nel gesto di aprire la porta, si riscosse ed entrò
con decisione.
Alfredo
era steso sul letto, in una posizione che chiunque avrebbe trovato
più che scomoda: gli arti superiori ormai irrigiditi, uno steso
lungo il fianco, l'altro sollevato fin sopra la testa. Le dita delle
mani sembravano rotte da quanto deformi, ma la cosa più sconvolgente
era certamente il viso: la parte sinistra del volto era contratta,
sfigurata da una smorfia, lo zigomo talmente sollevato da schiacciare
l'occhio nella sua stessa orbita.
«Ch-chi è?»
La sua voce era il lamento di un vecchio.
«Buona sera
Alfredo, sono Padre Cesare, un fratello arrivato da pochi giorni.
Volevo fare la tua conoscenza.»
«P-piacere
di conoscerti... F-fratello.»
«Come stai?»
Alfredo
girò appena la testa, per cercare di guardarlo negli occhi, lo
sforzo gli costò un basso gemito che non riuscì a trattenere. Era
evidente che ogni minimo movimento doveva procurargli dei dolori
lancinanti.
«Il
corpo sembra dire il contrario, ne sono consapevole, ma nella mia
anima sono sereno.»
Cesare
si sedette accanto al
letto, per permettere ad Alfredo di guardarlo in viso senza doversi
scostare dai cuscini che lo sorreggevano.
«Mi
hanno raccontato della tua fede incrollabile, che ti spinge a restare
qui al monastero nonostante tutto il dolore che provi.»
«Il
Signore è con me, in
ogni momento. L-lo sento vicino anche ora... È lui che ti ha
portato da me.»
“Si,
evidentemente il Signore mi ha fatto trovare quei necrologi” pensò
Cesare.
«Il medico
cosa ne pensa?»
«I-il
medico continua a dire... C-continua a dire che se resterò qui
morirò» disse.
«Non credi
che possa aver ragione?»
Alfredo
sospirò. «P-potrebbe anche aver ragione... m-ma io reputo questa
malattia una prova di Dio per purificare i miei peccati... una
v-volta conclusa... c-che io sia qui o meno avrà poca importanza...
l-la mia anima sarà pura, e io sarò in p-pace col Signore... e con
me stesso.»
«Alfredo,
tu hai poco più di vent'anni. Come puoi pensare di aver commesso dei
peccati tali da meritarti questo tormento?» lo sguardo di Cesare era
pieno di tenerezza.
“Io
avrei meritato tutto questo, non certo tu.”
Alfredo
ricambiò lo sguardo del confratello, quasi con pietà, e Cesare
intravide un sorriso amaro attraverso la maschera deforme che era
ormai il suo viso.
«A-avevo
circa dieci anni quando i miei genitori morirono... m-mi rimase solo
una cosa, il nulla. L'incendio... l'incendio che aveva distrutto la
nostra casa si portò via loro e tutti i nostri averi...» Fece una
pausa, il respiro affannato, Cesare continuò a fissarlo in silenzio,
poi Alfredo continuò: «D-divenni un randagio, costretto a vivere di
stenti... c-col rischio di morire ogni giorno in qualche vicolo...
A-alla fine iniziai a rubare... i primi anni mi limitavo a sottrarre
qualche frutto o p-pezzo di pane nei mercati... p-poi crescendo la
cupidigia si era impadronita di me.. E-entrai a far parte di un
masnada di f-farabutti... c-con loro avevo almeno vitto e alloggio...
c-credevo di aver trovato una nuova casa, per quanto squallida
fosse... ma avevo trovato il diavolo.»
«Strade
di quel genere purtroppo non portano mai a cose buone.» annuì
Cesare, ma il racconto di Alfredo non era finito, il suo respiro si
faceva sempre più pesante, ma subito riprese a parlare.
«D-derubavamo
case di mercanti e nobili... Dalla nostra avevamo il fatto di essere
giovani e forti... non eravamo certo organizzati ma i-in qualche modo
riuscivamo sempre a scamparla.»
«Nessuno
può andare avanti a lungo conducendo una vita del genere. Come sei
arrivato fino a qui? Dove hai trovato la fede che ti sostiene anche
ora?» lo interruppe Cesare, non era un confessore e si sentì in
dovere di fermare il fratello prima che finisse per condividere con
lui troppi dettagli.
«Q-questo
è uno dei capitoli più bui della mia vita... c-capitò sette
inverni fa... Avevamo adocchiato la casa di una vecchia s-signora...
e-era la moglie di un contabile, deceduto da pochi mesi... e-era
rimasta da sola con tutti gli averi del marito... n-noi scherzavamo
sul fatto c-che nel t-tempo che le restava da vivere non sarebbe mai
riuscita a spendere t-tutto, le avremmo fatto solo un f-favore
privandola di qualche gioiello.»
Cesare
lo osservava. Quello che vedeva era un uomo sostenuto dalla voglia di
redenzione. Iniziava a sentire dentro di se una strana empatia verso
il ragazzo “Dopo quello che ho commesso potrò mai diventare tanto
forte anche io?” si domandava.
Alfredo
proseguì: «C-colpimmo di notte, come al solito... c'era molto più
oro di quello che avessimo mai immaginato... i-io osai più di tutti
gli altri, mi azzardai fin nella s-stanza da letto, senza fare
rumore... e l-lì trovai la signora che dormiva, ignara della mia
presenza. P-preso da una maniacale cupidigia afferrai istintivamente
la collana lasciata sul comò affianco al letto... e-era l'unica cosa
di valore che avevo individuato in quella camera, doveva essere
mia... a-alla fine scappammo, con tutta la refurtiva. Ebbi un moto di
rabbia il giorno dopo, quando mi accorsi che la collana che avevo
preso non era d'oro, ma solamente di metallo brillante... P-preso
dalla furia ritornai di corsa alla villa della signora, con
l'intenzione di frantumargliela contro il muro esterno, perché la
trovasse... Q-quando arrivai li però trovai una folla di persone
ammassata contro il c-cancello... Incuriosito mi a-avvicinai e chiesi
ad uno dei presenti cosa fosse successo, g-gongolando nel conoscere
già la notizia che mi attendeva... Q-quello che ottenni però fu un
colpo al cuore: “Quei tangheri maledetti! Le hanno rubato tutto,
davvero tutto! Le guardie hanno trovato la signora impiccata nella
sua stanza! Ha persino lasciato un foglio per quei bastardi
maledetti! Dice che avrebbe sopportato il furto di qualunque cosa, ma
non dell'unico ricordo legato al suo povero figlio, perduto qualche
anno fa: la sua collana! E la beffa più grossa è che non valeva
niente! Spero che quei maledetti marciscano all'inferno, nel rimorso
di quello che hanno compiuto!”»
Cesare
rimase bloccato, un peso gli premeva sul cuore, improvvisamente in
quella piccola stanza si sentiva soffocare: “Ora capisco Signore,
le tue vie sono davvero infinite. Intendi mostrarmi la strada che
devo seguire mettendomi di fronte a peccati simili ai miei?”
«D-da
quel giorno una pietra venne calata sulla mia anima... d-decisi che
dovevo rimediare in ogni modo a quello che avevo compiuto... p-per la
prima volta nella mia vita, in preda al rimorso, mi confessai in
chiesa... I-il parroco, benedetto sia per l'eternità, m-mi accolse
sotto la sua ala, mostrandomi la via da seguire... Alla fine presi i
voti, ma sentivo c-che ancora non era sufficiente... p-per mondarmi
dal terribile peccato che avevo commesso non sarebbe bastata tutta la
mia esistenza. Per questo decisi di entrare nell'eremo di Nibizzola,
p-per dedicare la mia vita solo ed esclusivamente al Signore...
Q-quello che mi sta accadendo adesso è soltanto una prova in più a
cui Dio mi ha destinato nel lungo cammino che m-mi condurrà infine
da lui.»
Cesare
non ricordava più nemmeno il motivo per cui si era tanto voluto
recare lì.
Tutto
quello che custodiva dentro di se da così tanto tempo premeva per
uscire fuori con una furia incontrollata, che gli stava diventando
insopportabile.
«C-cesare,
tu perché sei giunto in quest'eremo?»
La
domanda, così diretta, lo spiazzò per un attimo, ma sentì che
doveva liberarsi di quel peso, era il momento, il luogo, e non aveva
senso trattenersi oltre: “Che persona meschina sono. Ho il coraggio
di confessarmi solo ad un morente” si rimproverò.
«Voglio
che tu sappia fin da subito che io non ho preso i voti perché ho
sentito la chiamata del Signore. Fu la povertà della mia famiglia a
costringermi a questa scelta. Per quanto fossi stato sempre molto
credente immaginavo la mia vita come quella di un uomo normale,
volevo creare una mia famiglia e vivere in pace. Purtroppo però ero
l'ultimo di tre fratelli ed i miei genitori non sarebbero mai
riusciti a mantenerci tutti quanti. Così non appena raggiunsi l'età
giusta venni spedito in seminario. Inizialmente non riuscivo a
concepire il fatto di essere stato allontanato da casa per una mera
ragione economica, ma alla fine capii. Davanti a me si presentò il
disegno che Dio aveva preparato per farmi trovare la vera fede. Ogni
cosa era al suo posto, e riuscivo a sentirmi in pace. Riuscii a
ringraziare anche i miei genitori per la scelta che mi avevano
imposto.»
Cesare
sospirò, poi proseguì: «Quanto
mi sbagliavo. Mi ero illuso di aver trovato la vera fede, ma dentro
me albergava ancora, anche se in piccola parte, il rimpianto per non
aver ottenuto la vita che desideravo.»
Si
interruppe un istante, come per ritrovare un’immagine lontana,
sepolta nella mente: «La conobbi durante una benedizione pasquale.
In quel periodo mi aggiravo per le case del mio paese, per portare la
protezione di nostro Signore sulle abitazioni dei fedeli.
Era la
figlia di un commerciante della zona. Fu lei ad aprire la porta al
mio arrivo; era rimasta in casa da sola a svolgere le faccende
domestiche mentre i genitori erano al lavoro. Terminata la
benedizione mi chiese se potevo rimanere un po' in casa assieme a
lei, per farle compagnia, visto che passava sola la maggior parte del
suo tempo. Era l'ultima casa che dovevo benedire, per cui non vidi
nulla di sbagliato a rimanere a chiacchierare un po' con quella
giovane. Si chiamava Eleonora, e Dio solo sa quanto l'ho amata»
abbassò gli occhi, non aveva la forza di cercare in Alfredo uno
sguardo di comprensione.
«Nei
giorni seguenti la rividi sempre più spesso in chiesa, e ogni volta
veniva da me per parlare dei suoi problemi di fanciulla, ma
sopratutto del suo innamorato che non si era ancora accorto di lei, e
ciò le provocava un dolore sempre più grande. Era un ragazzo che
vedevo sempre nelle messe domenicali: giovane e forte, ma conteso tra
molte delle donne del paese. Fu in quei momenti che quella parte di
me che credevo ormai sepolta tornò ad emergere.
Iniziai
a provare una sorta di invidia verso quell'uomo così fortunato da
poter persino scegliere la donna con cui vivere per sempre, la donna
da amare per la vita e da cui avere degli eredi.
Questo
sentimento si faceva ogni giorno più incontrollabile, e alla fine si
tramutò in gelosia verso Eleonora. Speravo ancora che tutto si
sarebbe fermato a questo.
Alla
fine decisi di dare un taglio a questa situazione, e così arrivai a
consigliarle con slancio di confessare direttamente il suo amore, era
una delle fanciulle più graziose del paese, ed ero sicuro che
sarebbe stata accettata. Invece accadde qualcosa che sconvolse
tutto.»
Finalmente
riusciva a parlarne con qualcuno. Alfredo ascoltava in silenzio,
l'attenzione completamente rivolta alla storia di Cesare.
«Era
una sera di tempesta, i tuoni rimbombavano nella chiesa in modo così
minaccioso da parere la voce stessa del diavolo che urlava tutta la
sua rabbia dall'inferno. E alla fine il maligno davvero si presentò.
Mi trovavo nel confessionale, in attesa di qualche sventurato
disposto a sfidare il maltempo per venire a rendermi partecipe dei
suoi peccati.
Ero
perso nell'ascoltare la pioggia battente quando udii la sua voce
dall'altra parte della grata. La riconobbi immediatamente, era lei».
Nel ricordare la sua voce, quella di Cesare ebbe un tremito. “Padre,
ho mentito, ho mentito così tanto da non riuscire più a
sopportarlo” gli aveva sussurrato.
«Le
dissi di confessare tutto liberamente, dopo qualche istante di
incertezza lei riprese a parlare, e quel che disse fu quanto di più
sconvolgente potessi credere di ascoltare.
“Padre,
ho mentito a te, solamente a te” continuava a ripetere, mentre io
non riuscivo a capire. Iniziai a diventare inquieto, e le chiesi di
spiegarsi, ma in tutta risposta sentii bussare al portoncino del
confessionale. Aprii.» e le parole uscirono una dopo l’altra,
incontrollabili,come un fiume in piena, mentre Cesare si lasciava
travolgere da quel ricordo incapace di arrestarsi.
«Venni
assalito dal diavolo. Ricordo l'odore dei suoi capelli bagnati dalla
pioggia, e il sapore delle sue labbra umide. Nonostante fosse il
demonio, era estremamente piacevole.
Così
piacevole da trasmettere in me lo stesso seme del male. Non avevo mai
avuto contatti con una donna prima di prendere i voti. Il sapore del
peccato è sempre lo stesso, in qualunque forma esso si presenti.
Credo di essere stato posseduto dal maligno in quel momento, perché
ricordo pochissimo di quell'ora fatale. Quando mi riebbi, lei era
stesa sulla panca del confessionale, con il mio saio a coprire le sue
nudità mentre dormiva. Non sapevo cosa fare. La mia mente non
riusciva a concepire quello che era appena successo, e credetti
davvero di divenire pazzo, più di una volta me lo ripetei, mentre
cercavo di dare un senso a tutto».
Si
prese la testa, fattasi
improvvisamente più pesante, tra le mani, e proseguì: «Passarono i
giorni, e alla fine i mesi. Gli alberi avevano abbandonato le foglie,
ma il peccato non ci aveva mai lasciati. Continuavamo a frequentarci,
i nostri incontri avvenivano per lo più a casa di lei, quando era
sola. Arrivai a convincermi che fosse davvero amore quello che era
nato tra noi due, un amore puro di quello benedetto dal Signore, ma
la parte ragionevole del mio essere urlava tutta la vergogna per
quello che stavo compiendo.
Lei era
nel fiore degli anni, una creatura talmente innamorata dello stesso
concetto d’amore da non rendersi nemmeno conto di quanto fosse
sbagliata la situazione che si era venuta a creare. Ma io volevo
essere cieco a tutto questo.
Continuava a
ripetermi che finché poteva restare con me non le importava di
nient'altro.
Eppure,
nonostante io stesso fossi perso in un sentimento che non avevo mai
provato prima, la ragione riprese il sopravvento quando lei avanzò
l'idea più assurda che si potesse immaginare: mi chiese di concepire
un figlio.»
Alfredo
lo guardava con la pietà di chi comprende a fondo le sventure avute
in comune, mentre Cesare riprendeva fiato per poi proseguire.
«Ebbi
finalmente il coraggio di dire basta a quella relazione incresciosa.
Eleonora divenne disperata, ed a nulla servirono i miei incitamenti a
farsi una vita normale, per il suo ed il mio bene. Arrivò a
minacciare il suicidio. Le imposi di cancellare quei terribili
pensieri e di non avvicinarsi più a me, per potermi dimenticare più
in fretta.»
“E'
così difficile parlarne di nuovo...” pensò per un istante, quasi
tentato ad interrompersi, ma Alfredo lo guardò incoraggiante, lo
sguardo pieno di un affetto e una compassione quasi paterni, e cosi
riprese il racconto.
«Un
giorno, semplicemente, smise di cercarmi. Credevo che fosse riuscita
a superare tutto quanto. Non la vidi per mesi, fino a quando non
appresi la terribile notizia. I genitori l'avevano trovata nel retro
della loro casa, al ritorno dal lavoro. Eleonora si era gettata dal
terrazzo al secondo piano, sfracellandosi al suolo. Doveva essere
rimasta agonizzante in quella posizione almeno un paio d'ore prima di
perdere la vita. Tutti la conoscevano come una ragazza tranquilla e
solare, l’intero paese non riusciva a capacitarsi di quel suo folle
gesto. Solo io ero a conoscenza del motivo che l’aveva spinta. Da
quel momento, dentro di me era come morto qualcosa. Per vari giorni
meditai di compiere lo stesso gesto, l’animo stretto in una morsa
di dolore atroce. Alla fine mi convinsi e confessai in lacrime quello
che era accaduto tra me ed Eleonora, al mio abate. Inizialmente Padre
Clemente rimase esterrefatto, vidi l’ira attraversargli lo sguardo,
poi decise di aiutarmi nell’unico modo che conosceva: mi consigliò
di trasferirmi in un eremo, un luogo di fede, solitario, lontano da
ogni traccia di quella vicenda, dove avrei potuto dedicare la mia
vita completamente a Dio, per pentirmi, ripagare il tradimento con la
preghiera e purificare così la mia anima.» Infine aggiunse «Nessuno
a parte te e Clemente è mai stato reso partecipe della mia storia».
Solo a
questo punto Cesare alzò lo sguardo verso
il volto di Alfredo: era rigato da lacrime.
«Perdonami,
Alfredo. Ti sto dando altro tormento. Forse non dovevo parlarti di
fatti così tristi nella tua condizione» ma mentre lo diceva si rese
conto, osservando meglio il fratello,che questi stava sorridendo, le
sue erano lacrime di gioia.
«Affatto
Cesare... s-sono felice
perché finalmente ho qui accanto a me qualcuno che riesce davvero a
comprendere q-quello che provo... v-vedi, il Signore ti ha fatto
veramente giungere a me, per la tua e la mia salvezza.»
Il
suono di quelle parole giunse a Cesare
come una benedizione, non si era mai sentito così sollevato. Riuscì
a sorridere, un sorriso spontaneo che non affiorava da mesi alle sue
labbra, e i due rimasero a lungo in silenzio, in pace finalmente.
La
campana della chiesa, segnale della fine delle preghiere, li svegliò.
Rapidamente i monaci si sarebbero riversati nel refettorio per
consumare la cena in comunità.
Cesare si
congedò con la promessa di tornare il giorno seguente a fargli
visita.
Ebbe
così inizio una nuova abitudine per Cesare. Padre Evaristo non poté
che acconsentire affinché il monaco avesse il permesso di tornare
regolarmente nella cella del malato: infatti, sin dal loro primo
incontro le crisi e gli spasmi di Alfredo erano diminuiti
drasticamente e il merito di tale sollievo non poteva che andare alla
compagnia del nuovo confratello, che tanta pace pareva portare
nell’animo tormentato dal morbo del giovane monaco. Lo stesso
Alfredo continuava a richiedere la presenza di Cesare, anche solo
come compagnia silenziosa accanto al letto.
“Ora
capisco, Signore. La tua volontà era questa sin dall'inizio. E'
questa la fede che avevo perso? O forse non l'avevo mai trovata, e
ora sono finalmente in pace? Ti ringrazio per avermi mostrato la via”
cosi sì ripeteva Cesare prima di ogni loro nuovo incontro. Non aveva
comunque rinunciato ad approfondire le sue indagini sulla insolita e
persistente malattia che affliggeva l’amico, e approfittava di ogni
loro incontro per portare avanti le sue osservazioni. Scoprì che
Alfredo aveva avuto la prima crisi durante una preghiera serale circa
un mese prima. Inizialmente si era pensato ad un episodio isolato,
causato dalla stanchezza dovuta al ruolo di ortolano a cui era
adibito, ma quando le crisi avevano preso a ripresentarsi sempre più
spesso, accompagnate da crescenti spasmi muscolari che alla fine lo
avevano costretto a restare disteso a letto, era stato convocato il
medico. Questo aveva provato ogni tipo di rimedio, ma la condizione
del malato era peggiorata a vista d'occhio ad ogni crisi.
Una
sera, dopo ormai dieci
giorni di visite quotidiane, al suo ingresso nella cella Cesare trovò
con sorpresa Alfredo non più adagiato sui cuscini, ma seduto sul
letto. Il ragazzo però aveva uno sguardo pensieroso.
«Alfredo,
sei riuscito a sederti finalmente!» esultò Cesare avvicinandosi a
lui.
«Già.
Ce l'ho fatta» rispose questi, ma la
sua voce era piatta e Cesare percepì una punta d'ansia nel suo tono.
«Che succede
Alfredo? Dovresti essere felice di esserci riuscito. Cosa ti turba?»
Alfredo voltò
lentamente la testa verso di lui.
«C'è una
cosa di cui ancora non ti ho ancora parlato, amico mio.»
Cesare si
sedette al suo fianco. «Parlamene, vedrai che ne trarrai sollievo.»
Alfredo
chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. «C'è un altro motivo
a cui non ti ho mai accennato, per cui non voglio essere spostato da
qui. Sin dalle notti delle mie prime crisi ho iniziato a fare degli
strani sogni. All'inizio credevo che fosse la febbre a procurarmeli,
ma poi mi sono reso conto che c'era qualcosa di insolito, un legame
fra loro, un nesso rappresentato proprio da questo eremo, o più
precisamente dal nostro piccolo cimitero. Ci sei stato Cesare? In
sogno mi aggiro per l'eremo, senza sosta attraverso stanze e corridoi
ed infine giungo sempre li, vicino al vecchio altare situato al
limitare del camposanto.»
Cesare
lo aveva notato durante la sua seconda settimana di permanenza.
L'altare del cimitero era un enorme blocco di marmo, simile a quello
della chiesa. Gli era stato spiegato che quello era l'altare della
vecchia cappella che sorgeva a Nibizzola prima della costruzione
dell'eremo, quando poi questa era stata abbattuta per lasciare posto
al monastero si era deciso di conservarne l’altare, lasciandolo
come monumento in memoria dei primi fratelli che avevano abitato lì
e che ora erano sepolti proprio in quella zona, divenuta poi il
cimitero dell’eremo. L'altare ormai era ridotto ad un rudere pieno
di crepe, causate dalle intemperie, ciononostante era ancora
utilizzato durante le messe funebri.
«Penserai
che siano sogni macabri, ma ogni volta che giungo al cimitero una
luce accecante mi pervade. Quando questo accade percepisco dentro di
me un enorme tepore, sento la forza della vita che scorre in me come
un fiume in piena. Ogni volta mi sveglio col ricordo di quella luce.
Io sono certo che quelli fossero messaggi di Dio: credo che volesse
farmi capire che nonostante il mio corpo fosse vicino alla morte la
mia anima era ancora piena di vita.»
«Da
cosa deriva quindi questa tua ansia? Sembra che Dio ti abbia
veramente salvato questa volta» chiese Cesare.
«Già,
dovrei esserne felice. Eppure sento di essermi come allontanato da
Lui. Da un paio di giorni questi sogni non si ripresentano. Ho
conosciuto la grazia del Signore, ed ora non posso più farne a meno.
Vorrei riviverlo almeno un'altra volta, anche se questo dovesse
costarmi la ritrovata salute» guardò Cesare «Mi reputi un
egoista?»
Il
fratello si affrettò a rispondergli: «Niente
affatto Alfredo, anzi credo che tutto ciò sia sempre una
manifestazione del tuo amore verso Dio. Ora però devi riprendere in
mano la tua vita, il Signore ti ha fatto un grande dono facendoti
guarire spontaneamente, ora devi dimostrargli che tutto ciò non è
stato vano.»
Alfredo
finalmente sorrise. Fece per stringere la mano di Cesare, che in
risposta lo abbracciò calorosamente, avendo cura di non procurargli
dolore agli arti nello slancio.
«Grazie
Cesare» sorrise questi
ricambiando l’abbraccio.
Si svegliò
di soprassalto. Vide che la stanza era immersa nell'oscurità, ma a
parte questo non vi era nulla di strano. Eppure, anche dopo diversi
minuti passati a rivoltarsi sul materasso, non riusciva a riprendere
sonno. Era inquieto, ma non ne capiva il motivo.
Alla fine si
ritrovò a fissare il giardino, come sempre.
Proprio
mentre stava per tornare a chiudere gli occhi e tentare di riprendere
sonno, udì distintamente dei passi veloci provenire dal piano
sottostante. Improvvisamente da sotto il porticato emersero di corsa
tre individui.
Aveva
visto fin troppe volte una scena simile, in quell'attimo però il suo
cuore prese a battere più forte “Cosa diamine sta succedendo qui?!
Perché la gente continua ad aggirarsi di notte quando sarebbe
proibito?!” sbottò tra sé.
Le tre figure
raggiunsero il cimitero, immergendosi nell'oscurità.
Cesare
non sapeva se uscire ed andare ad avvertire l'abate, ma poi la sua
attenzione fu attirata nuovamente da un movimento nella zona del
camposanto. Dall’oscurità uscì una sola ombra, percorrendo in
senso opposto il tragitto.
I passi
risuonarono sotto il porticato e sembrarono dirigersi verso il
cortile interno.
Per Cesare
era abbastanza.
Si diresse
subito verso la porta della sua cella aprendola con foga.
DOOONG!!
DOOONG!!!
Cesare si
bloccò sulla soglia, impietrito.
Quelle che
aveva appena udito erano le campane funebri.
giovedì 31 maggio 2012
Quarta parte del racconto "La stella"
Dopo varie fatiche ecco anche la quarta parte del nostro racconto: godetevela e commentate come sempre! Grazie come sempre alla nostra collaboratrice Sara per il suo lavoro di editing.
Enjoy!
PROLOGO
Quarta parte
Il canto dei
monaci risuonava in tutta la chiesa come una sola voce, carica di
preghiera.
Padre Cesare non
partecipava al coro, era entrato nella comunità da troppo poco tempo
e preferiva mantenersi in disparte.
L'abate, Padre
Evaristo, dirigeva i monaci dall’alto del suo scranno con gesti
ampi e armoniosi, come se stesse accarezzando le corde di uno
strumento musicale.
Padre Evaristo
era abate ormai da qualche tempo, uomo severo, di robusta corporatura
per non dire in carne, cosa inusuale vista la ferrea dieta a base di
legumi bolliti alla quale ogni monaco doveva attenersi, portava una
lunga barba a punta che arrivava fin oltre la cinta del saio; era
solito fissarla proprio con la cinta per evitare che questa lo
impacciasse nei movimenti, sopratutto quando doveva dirigere il coro.
Padre Cesare lo
osservava rapito. Evaristo teneva gli occhi chiusi, preso da una muta
preghiera che veniva resa udibile dal coro, le voci che si
alternavano in una perfetta melodia altalenante seguendo ogni minimo
movimento delle sue mani.
“Ci vorranno
mesi prima che riesca a cantare così anch'io” pensò fra sé e sé
Cesare.
Nel monastero da
cui proveniva, a cantare nel coro era solo una parte dei suoi
confratelli, il ristretto gruppo dei conversi, mentre tutti gli altri
ne erano dispensati sulla base delle diverse attività a cui potevano
essere addetti.
Padre Cesare
sapeva di non aver mai posseduto una particolare attitudine per il
canto, ma nell'eremo di San Costante vivevano solo sedici monaci, lui
compreso, perciò tutti avevano il dovere di partecipare al coro.
In quel momento
erano quindici i monaci nella piccola chiesa dell'eremo.
L'assente era
Padre Alfredo, un giovane frate, di non più di una ventina d'anni,
costretto a letto ormai da giorni da un morbo sconosciuto, dal quale
pareva non riuscire a guarire.
Il medico che
aveva incontrato alla locanda si presentava all’eremo ogni due o al
massimo tre giorni, per sincerarsi delle condizioni di Alfredo. Dal
suo arrivo Padre Cesare non aveva ancora avuto modo di incontrare il
confratello malato, il dottore continuava a ripetere che poteva
essere contagioso e bisognava prestare la massima attenzione,
adottando ogni precauzione possibile affinché il male non si
diffondesse.
Venne addirittura
suggerito di trasferire Alfredo nel più vicino ospedale, ma il
malato per primo si era opposto fermamente, sostenendo tra i gemiti
che il suo destino era nelle mani del Signore come doveva essere, e
non avrebbe accettato di essere allontanato dalla sua comunità.
Evaristo aveva
confessato a Cesare che nessuno dei monaci aveva avanzato obiezioni,
assecondando la sua scelta e motivandola come una prova di fede
davanti alle insistenze del medico, e a nulla erano valse le sue
recriminazioni: « Se mi consentiste di portarlo in una struttura
adeguata, probabilmente sarebbe in piedi in pochi giorni!» si
lamentava senza risultato.
«Cesare.»
La voce lo
riscosse dai suoi pensieri.
Padre Durante lo
stava fissando. Era uno dei monaci più socievoli, e l'unico con cui
fino ad ora aveva avuto modo di scambiare più di qualche parola.
Conversando con
lui aveva scoperto con sollievo che nessuno era stato informato della
vera causa del suo arrivo a Nibizzola, questo lo aveva reso più
rilassato, e aveva cosi riacquistando un po' della serena giovialità
che gli era propria.
Non si era reso
conto che i canti erano conclusi, i monaci stavano già uscendo dalla
chiesa per recarsi a consumare il pasto serale.
«Durante, sei
rimasto qui ad aspettarmi?»
Durante aveva
passato i quarant'anni, era uno dei pochi confratelli a non portare
la barba ed aveva perso ormai completamente i capelli. Gli occhi
azzurri erano sempre vispi, come alla ricerca di qualcosa,
espressione di un fine intelletto che Cesare aveva potuto apprezzare
nel corso delle loro conversazioni.
«Stasera Evaristo sarà ancora di
veglia al povero Alfredo, speriamo che passi anche questa notte come
le ultime tre» esordì Durante.
«Già, ma io continuo a non essere
convinto. Il mio vecchio abate non ci avrebbe pensato due volte e lo
avrebbe costretto a sottoporsi a delle cure più accurate, visto che
la possibilità esiste, ma qui sembra che si dia più ascolto ad una
mente resa folle dalla malattia piuttosto che al parere del medico».
«Mi è parso di capire che tu sia
stato trasferito qui proprio per “un crollo di fede”. Considera
questa una prova del Signore, assistere Alfredo nel suo travaglio
potrebbe aiutarti a capire se sei in grado di ritrovare la fiducia
nell’opera di nostro signore. D'altro canto è anche vero che Dio
ti aiuta se Tu ti aiuti. In effetti, se anche decidessero di
trasferirlo momentaneamente in ospedale dubito che questo possa
peggiorare ulteriormente la sua condizione, ma è una decisione che
spetta al diretto interessato. Chi siamo noi per poter imporre al
nostro confratello la nostra volontà? Sappiamo forse dire cosa è
meglio per lui?».
«Siamo davvero tutti nelle mani del
Signore»
«Così sia»
Si avviarono fuori. L'eremo aveva un
ampio cortile centrale, in cui trovavano posto una stalla e la
piccola chiesa in cui ultimamente si riunivano sempre più spesso a
pregare per la salute di fratello Alfredo.
“Posso solo sperare che abbiano
ragione. Forse ho davvero perso la fede, ed è una cosa di cui non
riesco a capacitarmi, ma non riesco a vedere oltre il fatto che c'è
un malato che sta morendo in una delle nostre celle, e nessuno fa
niente per aiutarlo davvero”.
Poi improvvisamente, come una fitta,
gli giunse doloroso alla mente il ricordo della causa per cui si
trovava lì: “In effetti, chi sono io per poter giudicare la fede
altrui, io che ho contravvenuto così tanto ai principi del mio
ordine da ridurmi per la vergogna a voler raggiungere il Signore
compiendo il peccato supremo... No, devo essere forte, come lo ero
una volta. Devo avere fede che Alfredo ce la possa fare, e che San
Costante vegli su di lui. Che possa avverarsi un altro miracolo dove
la forza dell’uomo non dovesse bastare a salvarlo”.
Il miracolo.
Era giunto da un
giorno soltanto quando Padre Evaristo gli aveva raccontato di come un
contadino sconosciuto avesse salvato dalla peste un intero villaggio.
Costante Sarachi,
era questo il suo nome prima di divenire Santo. Era vissuto a
Nibizzola circa cento anni prima, nel periodo in cui la peste
affliggeva quelle terre.
«La storia narra
che il ragazzo era stato contagiato dal nero male, preso dalla
sconforto aveva scelto di abbandonare famiglia ed amici per recarsi
alla ricerca di un luogo in cui morire in pace, senza rischiare di
diffondere ulteriormente il morbo. Questa scelta era stata dettata
anche dall'amore che provava per Giuditta, sua promessa sposa»,
lanciata un’occhiata al suo interlocutore per vedere se lo stava
ascoltando con sufficiente interesse, poi l’abate aveva proseguito
nel racconto «Quando ormai tutti si erano rassegnati alla sua morte,
Costante però fece ritorno, completamente guarito, alla sua dimora.
Con se portava solo una piccola ampolla piena d'acqua purissima,
donatagli da un angelo per debellare il male dal suo villaggio».
Secondo la storia
riportatagli dall’abate, purtroppo durante l’assenza di Costante
il padre della sua amata Giuditta era stato colpito duramente dalla
malattia. La disperazione della famiglia però si era tramutata in
stupore e successivamente in gioia, quando Costante aveva versato
poche gocce d'acqua sulla bocca dell'uomo ormai morente: fu così che
avvenne il primo miracolo.
In pochi giorni
l'adorato suocero si riprese del tutto, dando modo finalmente a
Costante e Giuditta di sposarsi sotto la sua paterna benedizione.
In brevissimo
tempo la voce del miracolo si era sparsa per tutto il villaggio, e
così iniziò una vera e propria processione di bisognosi verso
l'abitazione di Costante. Molte furono le persone graziate
dall'acqua santa, tanto che nel villaggio non vi era quasi più
traccia di ammalati.
Quando però la
notizia dei miracoli iniziò a diffondersi oltre i confini di
Nibizzola l'ampolla era ormai vuota. Costante decise quindi di
preservarne il poco contenuto rimasto, nel caso in cui il nero male
fosse tornato ad affliggere il suo villaggio, cosa che però non
accadde mai.
Costante concluse
la sua vita in tranquillità, assieme alla sua sposa. Prima di morire
donò la sua ampolla ad un ordine di monaci eremiti, che la
custodirono in un luogo sicuro, fondando qualche anno dopo l'eremo di
Nibizzola, divenuto eremo di San Costante a seguito della
beatificazione del contadino, richiesta a gran voce da tutto il
villaggio.
“Ora la reliquia si trova qui, a due
passi da me” pensò Cesare attraversando il piccolo cortile fuori
dalla chiesa. I monaci l'avevano chiusa dentro l’imponente altare
di marmo e solamente l'abate era in possesso della chiave in grado di
aprire il piccolo antro che la custodiva.
“Forse un giorno riuscirò a vederla.
Chissà, magari rimane ancora dell'acqua Santa al suo interno.”
Cesare era quasi incantato dall'idea che esistesse una sostanza
simile, e forse anche Alfredo sarebbe potuto guarire in breve tempo
utilizzandola.
Seguito da Durante varcò il portone
della sala comune dove gli altri monaci li stavano aspettando per la
preghiera prima della cena.
Restavano liberi i primi due posti
vicino all’ingresso, così Cesare e Durante vi si accomodarono.
Accanto a loro sedevano rispettivamente Padre Raffaello e Padre
Germano che, non appena ebbero terminato le preghiere, spezzarono due
fette di pane e gliele porsero. Cesare accettò e per ringraziare
Germano annuì insistentemente con la testa, scandendo in silenzio il
labiale di «Grazie». In tutta risposta l’anziano monaco, ormai
quasi completamente sordo, voltò il capo bruscamente ed iniziò a
sorseggiare il suo brodo di verdure. Durante lo aveva avvertito del
carattere burbero del fratello, che andava peggiorando con l’avanzare
della sordità.
«Fate attenzione al brodo, è
bollente» sussurrò Raffaello. Era il cuoco dell’eremo, portava
una folta barba arricciata che arrivava a coprire anche parte delle
orecchie, dove terminava in due ciuffi incolti di peluria grigia.
La cena si concluse nel silenzio più
assoluto e i monaci si diressero ancora una volta verso la piccola
chiesetta per le preghiere serali. Una volta terminate, quando oramai
gli ultimi raggi del sole erano svaniti, tutti i fratelli fecero
ritorno ai loro alloggi al primo piano dell’eremo, per coricarsi
nelle rispettive celle.
Cesare li seguì. Entrato nella sua
spoglia stanzetta, restò per qualche minuto affacciato all’unica
piccola feritoia, ad ammirare il giardino, il movimento delle foglie
che si intravedeva appena grazie al tenue chiarore della luna: si
poteva scorgere il piccolo spazio dedicato al cimitero, in cui le
salme dei fratelli si riconciliavano con il terreno. All’altro lato
del giardino, erano invece appena visibili gli orti, in cui i monaci
coltivavano tutti i legumi necessari per la loro tavola.
Fu improvviso.
La vide allungarsi sotto la luce
lunare, diretta verso il cimitero.
Un’ombra si aggirava per il cortile,
quando tutti i fratelli dovevano essere nei loro alloggi.
“Dio, prego per la tua misericordia,
fa che non sia morto Alfredo”
Solitamente però venivano suonate le
campane quando un lutto colpiva una comunità monastica, mentre in
questo caso era evidente che il silenzio regnava sovrano.
L’ombra svanì in un angolo del
cortile dove la luna non arrivava a schiarire il terreno.
Cesare rimase in attesa qualche minuto
alla finestra, poi sentendo che il sonno iniziava ad annebbiargli la
ragione, ringraziò Dio per la giornata appena trascorsa e si sdraiò
sul suo piccolo materasso. Mentre si coricava, decise che doveva
avere avuto un abbaglio causato dalla stanchezza, dopotutto l’ombra
poteva essere un animale notturno che si aggirava in cerca di piccole
prede, come topi che cosi numerosi si aggiravano per le vicine
stalle.
“Dormi Cesare, non puoi diventare
paranoico dopo solo una settimana di convivenza, domani tutto sarà
nella normalità”
Prima che i fantasmi della sua storia
tornassero a tormentarlo il sonno lo strappò alla realtà.
Si svegliò di soprassalto all'alba. I
rintocchi delle campane, puntualissimi come al solito, segnavano
l'inizio della giornata per tutto l'eremo. Cesare riallacciò il saio
e si incamminò verso la chiesa per le preghiere mattutine. Una volta
concluse, venne subito raggiunto da Padre Adriano:
«Buongiorno Cesare!»
«Buong-»
«Oggi abbiamo un compito molto molto
importante, il tuo primo incarico!». La sua voce suonava fin troppo
entusiasta.
«Bene, di qualsiasi cosa si tratti, io
sarò molt-»
«Il medico ha chiesto ad Evaristo di
cercare informazioni nella biblioteca, tutto quanto si possa trovare
riguardo alla malattia di Alfredo, e noi gliele troveremo!»
«Benissimo, dove dobb-»
«Seguimi, seguimi!» lo incalzò.
Cesare non poté fare altro che
avviarsi dietro l'iperattivo monaco. Nonostante il fisico cadente del
confratello non proprio nel fiore dell'età, il suo passo era
decisamente spedito. A Cesare ricordò la buffa imitazione di una
marcia militare, i lunghi capelli del monaco che ondeggiavano a
destra e a sinistra, rimbalzando sulle spalle ad ogni passo.
Gli occhi di Adriano si muovevano in
continuazione come alla ricerca di qualcosa che il frate non riusciva
mai a trovare, e Cesare si era convinto alla fine che nemmeno lui
sapesse cosa cercava.
Arrivarono alla biblioteca dell'eremo,
proprio mentre l'abate Evaristo stava uscendo.
«Ah bene, siete arrivati. Ero entrato
a controllare che fosse tutto in ordine per la vostra ricerca. Ci
auguriamo tutti che riusciate a scovare qualche annotazione su questo
morbo, ne va della salvezza di Alfredo. Abbiate fede e troverete, Dio
è sempre con noi, anche in questi duri momenti. Alfredo ne è la
riprova, sente che in questo luogo è custodito il segreto della sua
guarigione, il Signore glielo ha fatto capire».
«Se c'è anche solo un richiamo al
morbo in queste pagine, lo troveremo!» Adriano era incontenibile nel
suo entusiasmo, la sua voglia di fare era contagiosa.
Si misero subito al lavoro, posando
sull'enorme tavolo della biblioteca varie pile di manoscritti che
erano stati prodotti e accumulati sin dalla fondazione dell'eremo,
circa sessant'anni prima.
Le ricerche durarono molto più di
quanto entrambi i confratelli avessero potuto immaginare. Giunto il
tramonto del secondo giorno di ricerche, Cesare e Adriano non erano
riusciti a trovare nessun riferimento al morbo nei manoscritti
redatti nei primi dieci anni di vita dell'eremo. Durante i due giorni
che avevano trascorso lavorando incessantemente, le condizioni di
Alfredo erano costantemente peggiorate, e il medico sbraitava sempre
più forte insistendo che venisse trasferito fuori da “Questo luogo
di rimbecilliti!”.
Poi, la mattina del terzo giorno di
ricerche, un colpo sul tavolo interruppe bruscamente la lettura
frenetica di Adriano.
«Qui! Qui c'è qualcosa!»
Cesare mostrò al compagno quello che
aveva trovato. Scritti malamente da un fratello vissuto circa
quarant'anni prima di loro erano riportati i medesimi sintomi che
presentava Alfredo: febbre altissima, unita a crisi di spasmi
muscolari involontari che costringevano l'ammalato a giorni e giorni
di agonia, avevano preceduto la morte sopraggiunta dopo un'ultima
violenta crisi resa fatale dall'indebolimento progressivo.
«Perfetto! Lo porto subito ad
Evaristo!»
Adriano sparì di corsa dietro la porta
della biblioteca portando con lui il manoscritto.
Rimasto solo Cesare decise di
continuare a sfogliare i manoscritti più recenti, sperando di
trovare qualche altro riferimento che potesse rivelarsi utile.
Rintracciò la data di morte del monaco
stroncato dal morbo in un manoscritto che fungeva da necrologio:
“Anno del decesso: 1686, causa non riconducibile, morbo non
riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza
cadere nel blasfemo”.
“Se avessero continuato gli studi
magari adesso sapremmo cosa fare, a volte sembra che per la salvezza
dell'anima si debba per forza rifiutare la salvezza terrena. Signore
mio, cosa dovremmo fare? Se questo morbo si ripresentasse in futuro
non sarebbe meglio studiarlo a fondo, anche sul corpo di un fratello
che ci ha lasciato? Non sarebbe comunque fatto in nome Tuo? O forse è
una punizione per la nostra incapacità di amarti pienamente?”
Afferrò un altro tomo e ricominciò a sfogliare le pagine.
«Non può essere...» Per la sorpresa
aveva parlato ad alta voce.
“Anno del decesso: 1700, causa non
riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare
ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Ebbe un presentimento orribile.
Continuò a leggere solo i necrologi:
“Anno del decesso: 1716, causa non riconducibile, morbo non
riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza
cadere nel blasfemo.”
Fece un rapido conto degli anni che
separavano ogni morte.
Si alzò di scatto dalla sedia.
“Devo vedere Alfredo.”
mercoledì 23 maggio 2012
Terza parte del racconto "La stella"
Ebbene, siamo giunti alla terza parte del nostro racconto, leggete in numerosi e commentate! La quarta parte arriverà la prossima settimana (speriamo!).
PROLOGO
Parte Terza
1730, Nibizzola, piccolo paese della campagna milanese.
La carrozza avanzava lentamente sulla strada dissestata,
battuta da numerosi viaggiatori che tutti i giorni andavano e tornavano dal
centro del paese.
Gli scossoni provocati dalle asperità del terreno sotto le
ruote facevano continuamente sobbalzare l’unico passeggero, che malamente
tentava di mantenersi composto, sistemato com’era sugli stretti e scomodi
sedili, scarsamente imbottiti e rivestiti da un ormai logoro tessuto rossastro.
Passandosi una mano sul viso, l’uomo lanciò uno sguardo al
cielo che si imbruniva sempre più, lasciando poco alla volta spazio alla sera.
“L'eremo sarà sicuramente chiuso ormai” pensò Padre Cesare.
Aveva ormai compiuto i trentadue anni, Padre Cesare, un uomo
alto e dal fisico asciutto, con il viso adornato da una barba non ancora
imbiancata dal tempo, ora portata rada a causa dei disagi riservatigli dal
lungo viaggio verso la sperduta Nibizzola.
Tratto distintivo che condivideva con tutta la sua famiglia,
era la folta chioma di capelli neri, sempre indomabili, tanto che fin da
bambino persino sua madre aveva preso a chiamarlo “spaventapasseri”.
«Per favore, mi porti alla locanda più vicina, ormai l'eremo
avrà già chiuso i portoni, e non voglio farle fare un giro a vuoto».
Il cocchiere non rispose ma si limitò a un cenno di assenso.
Probabilmente anche lui era stanco di una compagnia così
taciturna come quella del frate.
Solitamente Padre Cesare non era così chiuso in sé stesso,
ma dopo il fatto increscioso che lo aveva visto coinvolto, preferiva evitare di
dare troppa confidenza a chiunque.
«Siamo arrivati.»
Il commento del cocchiere ruppe il corso silenzioso dei suoi
pensieri e lo fece trasalire. Si forzò ad alzarsi dallo scomodo sedile, le ossa
doloranti per la lunga costrizione in uno spazio cosi angusto, e si affrettò a
scendere, barcollando, centrando in pieno una pozzanghera di fango col piede
sinistro. Non portava altro che un leggero mantello sopra al saio, e calzava i
leggeri sandali di pelle del suo ordine. Il contatto con l’acqua gelida e
fangosa, il vento pungente che lo investì mentre recuperava il suo scarno
bagaglio dalla carrozza, gli provocarono uno spasmo involontario, un brivido
gli corse lungo la schiena e lo fece saltellare emettendo un versetto
contrariato poco degno del suo alto ufficio.
Il viaggio era stato pagato interamente dal monastero da cui
proveniva, inclusa anche una piccola riserva di denaro di cui era stato dotato,
da usare per gli eventuali imprevisti in cui sarebbe potuto incorrere lungo la
strada per l’eremo di Nibizzola.
Si congedò con poche parole dal cocchiere benedicendolo e si
diresse immediatamente al piccolo edificio che fungeva da locanda del paese.
Il freddo autunnale si faceva sentire, il cielo non
prometteva nulla di buono con il suo grigiore compatto, così Padre Cesare si
affrettò ad entrare. Varcata la soglia venne investito da un rassicurante
tepore, che lo fece sentire subito meglio.
La stanza in cui era entrato non era certo lussuosa,
illuminata malamente da due miseri candelabri che pendevano da un grigio
soffitto di vecchie assi di legno, la penombra dava al tutto un'aria quasi
spettrale.
Un bancone era stato sistemato di fronte all'entrata, in
modo che il proprietario potesse sempre osservare l'ingresso e gli avventori
che lo attraversavano, ma la stanza fungeva anche da sala comune e vi si
ammassavano un paio tavoli evidentemente attrezzati per consumare i pasti. Un
leggero odore di stufato si spandeva dalla cucina, collocata in una stanza
appena sul retro.
Il proprietario si rivelò essere un'enorme donna,
affaccendata con piglio caparbio sul bancone, ne strofinava il legno con uno
straccio reso quasi nero dall’uso.
Padre Cesare si avvicinò, appena lo vide la locandiera si
affrettò a gettare lo straccio in angolo. Lo squadrò con la sua enorme faccia,
sotto la quale facevano capolino ben tre menti di carne superflua.
«Buona sera...» osservando il saio da monaco che Cesare
portava sotto il mantello si affrettò a concludere la frase «...padre.»
«Buona sera» rispose lui, aggiungendo «Temo che dovrò
passare la notte qui, l'eremo dovrebbe già aver serrato le sue porte a
quest'ora, giusto?»
La donna si girò, lanciò un urlo con quella sua voce
profonda, facendo trasalire gli unici due avventori intenti a consumare il loro
pasto silenzioso ai tavoli della sala. «Tonio! Scendi che ce n'è un altro!».
Non trascorse che un istante dall’urlo della locandiera, che
si affacciò, da una rampa di scalini situata in fondo alla stanza, un pallido
ragazzino dall’aria annoiata.
Padre Cesare lo osservò arrivare, strascicando i piedi con
passo incerto, sollevare il suo fagotto e portarlo al piano di sopra.
Una volta che il ragazzino fu sparito al piano superiore,
Cesare si rivolse alla donna:
«Spero che questo basti anche per un piatto del suo stufato,
gentile signora, il viaggio è stato lungo e faticoso.» prese dalle tasche tutto il denaro che aveva
e lo rovesciò sul bancone.
La locandiera raccolse con attenzione tutte le monete, una
per una, mentre sottovoce contava.
Alla fine sentenziò: «Basta eccome. Tenga il resto però.»
Cesare rifiutò con garbo «A me non servono, li usi piuttosto
per il suo bambino.»
«Grazie allora» rispose lei, e senza troppe cerimonie si
cacciò tutto in tasca, poi continuò «Se vuole sedersi a uno dei tavoli, tra
poco le porto la cena, padre».
Il monaco si voltò, lanciò uno sguardo nella sala per
scegliere dove sedersi, trovando con disappunto che gli unici due tavoli erano
occupati, ognuno da un solo avventore. Evidentemente entrambi erano poco in
vena di reciproca compagnia.
Uno era un uomo robusto, tozzo e dall'aspetto decisamente
poco invitante: indossava una camicia con larghe macchie di vino sul davanti ed
enormi aloni di sudore sotto le ascelle. Tutto il corpo, a partire dalla pelle
fino alle unghie, era costellato da incrostazioni di sporco nerastro. Stava
seduto storto con una gamba penzolante e guardava con una punta di disprezzo
Padre Cesare. Quando incrociarono lo sguardo il tizio sorrise beffardo
mostrando una fila di denti in legno oramai marcito. Una cicatrice gli
deturpava la gola, e formava in mezzo alla barba incolta un secondo, malsano
sorriso.
L'altro individuo invece si presentava in maniera
completamente diversa: già la postura composta faceva intuire che si trattasse
di una persona di rango sociale di tutt’altra risma rispetto al primo
avventore.
Portava una giacca con sottilissimi intarsi d'argento sulle
cuciture, sotto la quale un panciotto ben riempito faceva capolino, anche
questo coordinato con la giacca.
Padre Cesare non ebbe dubbi e si avvicinò a quest'ultimo,
prendendo posto di fronte a lui.
Mentre spostava la sedia per accomodarsi, notò quello che
sembrava un bagaglio lasciato per terra, una borsa.
“Forse non si ferma per la notte” pensò Cesare.
«Buona sera padre» lo salutò il distinto signore sollevando
lo sguardo dal suo piatto di stufato.
Padre Cesare lo guardò in faccia: pareva abbastanza anziano,
i pochi capelli ormai ingrigiti dall'età, e portava le basette perfettamente
rasate. Gli occhi apparivano stanchi ma sereni, segno di una dura giornata di
lavoro ormai giunta al termine.
«Buona sera» rispose Padre Cesare.
«Come mai fuori dall'eremo? Mi avevate detto che avete
smesso per ora con il commercio di spezie e -»
Cesare lo interruppe subito «Questo perché io non sono del
monastero, o meglio, ne farò parte da domani non appena apriranno i portoni».
«Ah, capisco. Beh, deve scusare la mia curiosità ma sa,
normalmente da quel posto entrano ed escono pochissime persone; io sono fra
quelle, in quanto medico. La cosa più assurda di questi tempi è che si ammalano
più i monaci che vivono isolati che la gente comune del paese. Qui negli ultimi
anni le malattie più gravi che ho visto sono i soliti raffreddori invernali,
nulla di più. Sembra quasi che il miracolo che dicono sia avvenuto tanti anni
fa continui ancora imperterrito la sua opera benefica, ma io non credo in
queste cose. Coincidenze, nulla di più. Senza offesa ovviamente, padre.»
Padre Cesare non aveva nessuna intenzione di perdersi in
chiacchiere con uno sconosciuto, per di più con qualcuno che poteva venire in
breve tempo a conoscenza della causa per cui era stato trasferito a Nibizzola.
E’ noto quanto le voci viaggino in fretta anche nei monasteri isolati.
«Dio lascia sempre liberi di scegliere, per cui non mi reca
assolutamente offesa.»
Lo stufato venne servito dal ragazzino, che portò i piatti
al tavolo con il suo passo pigro e strascicato.
Cesare sperava di poter consumare il pasto in totale
tranquillità e silenzio: purtroppo il suo commensale la pensava diversamente.
Attese infatti che il monaco finisse le preghiere prima
della cena, e poi partì con le domande:
«Allora padre, cosa la porta qui a Nibizzola?»
“Nulla che a te possa interessare, visto che domani
probabilmente ti dimenticherai di me non appena riprenderai a visitare persone,
medico. A meno che tu non scopra la verità. In quel caso parlerai di me a tutti
quelli che incontrerai, probabilmente. E' sempre così.”
Il monaco disse invece: «La Fede è una cosa che va coltivata
e deve sempre crescere nell'arco della vita, poiché essa ci permette di
arrivare ad una comprensione più piena dell'esistenza avvicinandoci al Signore.
Ho sentito che la mia fede stava iniziando a vacillare, per questo ho deciso di
venire ad isolarmi nell'eremo insieme ai miei santi fratelli. E da domani vivrò
lì.»
Il medico rimase un attimo imbambolato fissando Padre
Cesare. Poi si riscosse e rispose «Ah, capisco. Quindi anche a voi di tanto in
tanto viene a mancare la fede eh? Magari potessimo, noi persone normali,
operare delle soluzioni tanto radicali nelle nostre vite, prendere e andare
come ci pare! Ma il lavoro è lavoro, io cerco di fare il bene fisico delle
persone e lei quello... quello...»
«Quello spirituale» concluse Padre Cesare accennando a un
sorriso.
«Spirituale, giusto, giusto.»
Conclusero la cena in silenzio, con grande sollievo di
Cesare.
Quando i piatti furono vuoti, il medico si alzò e recuperò
la sua borsa da terra, poi si rivolse un'ultima volta al monaco: «Beh, s'è
fatto tardi. Se destino vuole ci rivedremo all'eremo, sperando che quel
fraticello riesca a superare la notte».
Padre Cesare si alzò dopo che il medico fu uscito dalla
locanda, dirigendosi verso il bancone ma trovandolo vuoto.
«Le stanze sono su per gli scalini, la sua è la prima sulla
sinistra, se quella polenta di mia
moglie si sbriga a sistemarla.»
A parlare era stato il tizio dall’aria poco raccomandabile
seduto all'altro tavolo, che si alzò e andò a sistemarsi dietro il bancone.
Cesare cercò di cancellare l’espressione stupita dal suo volto e subito si
avviò verso le scale biascicando un «Oh, grazie».
Arrivato al piano superiore trovò la stanza sulla sinistra
con la porta socchiusa.
Un leggero odore di muffa permeava tutto l’interno della
camera, che si presentava assai spoglia persino per le abitudini di un monaco.
La locandiera stava riassestando il letto, composto da poche
assi e un sottile materasso, che probabilmente sarebbe servito a poco nel
rendere più comodo il riposo.
Per riscaldare l'ambiente era stato collocato appena accanto
alla porta un piccolo vaso con dentro delle braci ardenti; Cesare sperò che
bastassero per tutta la notte.
La donna si congedò e prima che si chiudesse alle spalle la
porta lui la ringraziò benedicendo lei e il figlio.
Era esausto, le fatiche del viaggio lo avevano stremato,
così iniziò subito le preghiere notturne ultimandole forse troppo rapidamente,
e si coricò sul logoro materasso, trovandolo persino più comodo di quel che
l’apparenza suggeriva.
Non sapeva che tipo di accoglienza avrebbe trovato
l'indomani all'eremo.
Temeva che tutti lo trattassero come una specie di
appestato, dopo quello che gli era successo, ma d'altronde non sapeva nemmeno
cosa era stato riferito della sua storia nella lettera che annunciava il suo
arrivo.
Alla fine anche pensare gli risultò faticoso, così scivolò senza
accorgersene in un sonno profondo e senza sogni.
Si svegliò alle prime luci all'alba. La stanza era diventata
molto fredda, le braci completamente spente, Cesare decise quindi di alzarsi
subito e si vestì quanto più rapidamente poté, gli arti ancora intorpiditi dal
sonno.
Riassettato il suo bagaglio, uscì nel corridoio e scese le
scale, trovando il rozzo oste che stava pulendo i tavoli dove avevano cenato la
sera prima. «Buongiorno, dormito bene padre?»
«Splendidamente. Ora dovete scusarmi ma preferirei
raggiungere subito l'eremo. Che Dio vi benedica, e andate in pace».
L'uomo accennò un segno della croce «Grazie padre» poi
aggiunse con un ghigno «e stia attento in mezzo a quei rinchiusi, sia mai che
la solitudine gli abbia dato alla testa».
Padre Cesare non rispose, si avviò con un cenno di saluto
alla porta e poi con passo deciso iniziò la lunga camminata prima attraverso e
poi fuori dal paese, verso l'eremo.
Passando accanto alla piazza, notò una grossa statua situata
proprio al centro: rappresentava due persone. Incuriosito si avvicinò per
osservarla meglio.
In piedi, si ergeva alta la figura di un uomo nel fiore
degli anni, versava da un'ampolla stretta nella mano destra quella che pareva
dell'acqua sulla bocca del secondo personaggio, inginocchiato in atto di
supplica, il volto bloccato in una perenne disperata preghiera.
Padre Cesare lesse l'iscrizione posta alla base:
“Qui visse San Costante Sarachi da Nibizzola, colui che
mondò questo paese dal nero male che tanti
ha portato via. L'acqua santa con cui ripulì dalle malattie e dai
peccati questa gente è custodita nell'eremo a lui dedicato”.
Padre Cesare alzò lo sguardo: oltre la statua, appena fuori
dalle porte del paese, si scorgevano in lontananza le mura della sua nuova casa,
l'Eremo di San Costante.
mercoledì 16 maggio 2012
Seconda parte del racconto "La stella"
Ed ecco qui la seconda parte del racconto scritto da Ksinin e Gambero! Un grazie ancora a Sara per il suo essenziale intervento di editing.
Restate sintonizzati sul No Pipe Blog in attesa della terza parte, che molto probabilmente arriverà la prossima settimana!
Enjoy!
PROLOGO
Parte Seconda
Aveva appena finito di fare sua la coscienza degli esseri che percepiva vicini quando lo vide rovinare dentro la conca.
Come aveva fatto a non percepirlo subito?
Ne comprese immediatamente il motivo: la vita lo stava abbandonando.
Decise di restare ad osservarlo. L'essere giaceva privo di coscienza sul terreno. Era lì, con la mano stesa che puntava proprio verso la sua figura.
Rimasero così per molto tempo. Infine il destino decise di lasciare ancora la vita nel corpo della creatura.
*
Costante si svegliò. Stava leggermente meglio ma capì presto che la malattia era ancora con lui, e con essa anche le allucinazioni. Con la poca forza rimastagli si mise carponi.
La sua mente annebbiata non riusciva a definire cosa ci fosse esattamente di fronte a lui.
Sembrava come se l'acqua del fiume si fosse raccolta, assumendo la vaga forma di un uomo, ma quel che gli appariva di fronte non aveva certo l’aspetto di un essere di questo mondo.
Costante cercò il suo sguardo, ma quando vide ciò che dovevano essere gli occhi della creatura dinanzi a lui, non poté che distogliere i suoi da quella visione.
Era come osservare il sole: non era possibile guardarne il viso a causa di quelle due luci accecanti.
«C-chi sei?» Le parole gli erano uscite quasi senza volerlo.
«Così come mi vedi ora, nessuno.» La voce dell'essere risuonava attorno a lui, ma Costante era certo di non aver notato il movimento di nessuna bocca su quel viso. «Prima che la vita ti abbandoni, vieni.» Il ragazzo, istintivamente, afferrò la mano che gli era comparsa dinnanzi. Quel tocco gli riportò alla mente una sensazione che aveva dimenticato da tempo, e rivide sé stesso da bambino, quando afferrava la mano della madre per sentire vicino a lui la rassicurante presenza materna.
Così si avviarono a passo lento, con il ragazzo che riusciva a stare in piedi a stento solo grazie al sostegno dell'essere, che dal canto suo procedeva diritto davanti a lui, guidandolo senza degnarlo di uno sguardo. Mentre abbandonavano i campi per dirigersi nella vicina boscaglia, Costante ebbe modo di osservarlo meglio, anche se di spalle. Era formato, come aveva già visto, da una sostanza che somigliava all'acqua, ma evidentemente era qualcos'altro: non riusciva minimamente a vedere attraverso il suo corpo per quanto traslucido fosse all’apparenza. Visto da lontano sarebbe sembrato un uomo nel fiore dell'età. Riusciva a distinguere, appena sotto la “pelle” della creatura, lievi increspature nel liquido, atte a formare quelli che parevano i muscoli che si muovevano in tensione nel lento movimento del passo.
Quando distolse lo sguardo dal misterioso estraneo che lo stava accompagnando, si accorse di essere al limitare di una piccola radura, che aveva attraversato molte volte recandosi nel bosco per recuperare la legna per l'inverno.
Qui l'essere si fermò e fece adagiare Costante su un letto di foglie.
La malattia del ragazzo stava avanzando con ritmo incessante, divorandolo dall’interno, ed il poveretto era cosciente che presto non sarebbe nemmeno più stato in grado di sollevarsi da quel giaciglio. Rimasero così, in silenzio, per un tempo che a Costante sembrò lunghissimo, scandito dalle dolorose fitte che percepiva ad ogni muscolo del corpo, della sofferenza data dai bubboni e dalla febbre.
Quando la luce del giorno iniziò a calare finalmente il silenzio venne rotto, fu la creatura a parlare per prima:
«Costante, parlami della tua vita. Chi eri prima dell'avvento della piaga?»
Costante rimase per un attimo stupito dalla domanda. Decise che arrivati a quel punto non aveva senso interrogarsi sull'affidabilità dello straniero: peggio di così non poteva andare, e parlare un po' probabilmente lo avrebbe distolto dalle sofferenze.
«S-sono nato in una famiglia di contadini...» la voce gli usciva a stento, un bisbiglio quasi impercettibile, ma il ragazzo era sicuro che la creatura lo stesse ascoltando attentamente «… beh non c'è molto da dire. In effetti cosa si potrebbe pretendere dalla vita di un contadino?»
«Non eri contento della tua vita?» chiese lo straniero di rimando.
«È una domanda che non mi ero mai posto, non prima che arrivasse la peste. P-prima tutto scorreva velocemente, il lavoro n-non dava tempo di porsi certe domande, in effetti la v-vita mi andava bene così, era…s-semplice.» Calò di nuovo il silenzio. Dopo qualche minuto Costante proseguì «P-poi arrivò il flagello. Tutto andò a farsi benedire. I miei g-genitori f-furono fra i primi ad ammalarsi, p-però io e mio fratello siamo riusciti a s-sopravvivere e a gestire da s-soli il terreno. Credevo che sarei riuscito lo stesso a sposare Giuditta, che non tutto era perduto, m-mi ero convinto che mio fratello non si sarebbe mai ammalato, e invece è successo, troppo presto... t-troppo p-presto...troppo...» le parole si persero in un insieme di mugugni incomprensibili. Era stanchissimo, e la febbre gli stava salendo di nuovo. Provò a parlare, ma ebbe un rigurgito di bile che gli finì sul petto. Sentiva l'umido che si faceva strada attraverso la stoffa, ed iniziò a provare intensi brividi di freddo. «La casa... l-la nostra casa, l'hanno marchiata e b-bruciata..» vomitò altra bile. Ebbe un ultimo, disperato, momento di lucidità: Giuditta, doveva tornare da lei. In preda allo sconforto Costante sospirò «G-giuditta.. D-dove s-sei?» Poi, con tutta la voce che gli restava disse «Ehi, T-t-tu p-puoi aiutarmi?»
La domanda si perse nel nulla, e così fece anche la mente di Costante, che cadde in un sonno inquieto.
Il mattino seguente Costante si sentiva meglio, anche se i bubboni che avvertiva nelle gambe gli dolevano come non mai. Incredibilmente si era svegliato lucido, così pensò che la febbre doveva essersi abbassata nel sonno. Ebbe uno spasmo improvviso, iniziava a ricordare gli eventi del giorno prima e, in preda al panico, cercò di mettersi seduto sebbene gli arti lo reggessero a malapena. Riuscì a indietreggiare fino a poggiare la schiena su un tronco. Quando finalmente si guardò attorno, lo travolse un altro fremito: aveva appena incrociato gli occhi con quella che riteneva un'allucinazione, e di nuovo li aveva dovuti distogliere immediatamente, erano accecanti come li ricordava attraverso i deliri della febbre. «Tu sei vero?» chiese d’istinto. «Io esisto, come tu esisti. Adesso continua il tuo racconto di ieri sera. Chi è Giuditta?» Costante ebbe una fitta al cuore. «Si. Giuditta, la mia amata. Ci conosciamo fin da bambini, siamo vicini di casa, i nostri poderi confinano; siamo vissuti sempre in mezzo ai campi. Le famiglie erano già d'accordo per il nostro matrimonio, tutto andava bene.» Costante sospirò. «Poi sono arrivate prima la carestia e poi la peste. Quando rimasi senza la mia casa loro mi ospitarono solo ad una condizione: dovevo dargli la mia terra, la terra della mia famiglia; non mi vedevano più bene come prima, avevano paura che anche io fossi malato, ma loro erano ciechi, ciechi all'amore che lega me e Giuditta, se ci fossimo sposati le terre sarebbero state di nuovo mie di diritto un giorno, tutto sarebbe tornato a posto. Ora invece eccomi qui, proprio quando mi stavo convincendo che tutto si poteva sistemare.» Si lasciò andare ad un sorriso amaro.
Alzò lo sguardo fino a trovare le gambe della creatura, cercando una parvenza di dialogo:
«T-tu hai mai avuto una donna?»
«Mi domandi se io ho mai provato il sentimento che voi chiamate amore. Posso rivelarti che sono in grado di percepire qualcosa di simile, ma non a livello individuale.» Costante comprese poco della risposta ricevuta. L'estraneo proseguì: «Avresti trovato sollievo se ti avessi rivelato somiglianze tra me e te?»
«B-beh. Forse avresti potuto capire m-meglio il dolore che provo.»
«Mi dispiace, non sono qui per alleviare i mali del vostro mondo. Ma solo per osservarlo.»
«Q-quindi n-non mi aiuti?» A questa domanda l'essere non rispose; calò il silenzio. Costante non ebbe né il coraggio né la forza di porre ulteriori domande e si lasciò cadere in un sonno sempre più ricco di tormenti.
Quando i primi raggi del sole filtrarono attraverso i rami Costante aprì gli occhi. Questa volta la notte non aveva giovato alla sua salute: il ragazzo non riusciva a muovere nessun arto, segno che la malattia era giunta allo stato ultimo. Alcune delle pustole sotto alle ascelle erano esplose ed un odore rancido si era diffuso attraverso i vestiti umidi, aumentando il suo disagio. Lui quell’odore lo conosceva bene.
La solita voce ruppe il silenzio: «Costante, ormai il tempo è poco, devo chiederti un'ultima cosa.» A queste parole l'animo del poveretto ebbe un sussulto di gioia e rabbia assieme.
“Perché mai questa creatura dove continuare a tormentarmi tutto il giorno?” pensò. Ma la paura di rimanere solo ebbe il sopravvento, così restò in silenzio, aspettando che lo straniero finisse la sua richiesta. «Costante, come immaginavi il tuo futuro senza la piaga?»
La voce del ragazzo ormai era ridotta ad un rantolo quasi incomprensibile «Io, io dovevo sposare Giuditta, avere dei bambini con lei e portare avanti il lavoro dei miei genitori, non chiedevo troppo in fondo... Forse Dio non vuole la mia felicità? Io-» Lo straniero per la prima volta interruppe il ragazzo: «La verità, Costante, la verità...» A questo punto le lacrime si fecero strada sul volto del giovane mentre la rabbia della disperazione gli invadeva la mente «Quei vecchi! Dovevano morire loro! Avrei avuto la mia vita felice con Giuditta senza di loro... Bastardi! Bastardi maledetti!» Costante non stava nemmeno più parlando, ma gli urli nei suoi pensieri avevano raggiunto sicuramente la creatura.
Infine la ragione lo abbandonò del tutto.
«Non posso perdere tutto così! Aiutami tu! Ti prego! Aiutami! Aiutami! Dio, ascoltami per una volta!» Ma per quanto cercasse di urlare, attorno a lui regnava il silenzio. «Ti supplico, guariscimi! Giuditta non può vivere senza di me! Non voglio morire! Guariscimi!» Nonostante dalla bocca di Costante non fosse uscito nessun suono lo straniero rispose a voce alta: «Non aver paura Costante, hai detto di essere soddisfatto della tua vita prima della piaga, ma non puoi fare tesoro della vita senza aver fatto esperienza anche della morte. Ora, alla fine, sii soddisfatto di ciò che sei e di ciò che sei stato.» Di queste parole, così nette, Costante poteva ormai comprendere ben poco, ma il tono fermo dello straniero aveva placato il suo animo: era vero dopotutto, lui era stato felice, e come tutte le cose anche la felicità si estingue. «Voi uomini avete sempre cercato di ottenere la vita eterna, ma ricorda, l'eternità non fa altro che togliere valore all'esistenza e a ciò che essa rappresenta per tutti noi.» Con queste parole che gli risuonavano nella mente Costante decise di abbandonarsi ad un sonno tranquillo e senza incubi.
«Apri gli occhi.» Costante ci riuscì. Era stato adagiato con la schiena poggiata ad un ceppo d'albero e, anche se a fatica, si guardò attorno. Non aveva più alcuna percezione del suo corpo, la vista era l'unico segnale che gli faceva comprendere di essere ancora vivo, e che “lui” era sempre lì a fissarlo. Era tranquillo, ormai non aveva più senso lamentarsi. Vi era un solo pensiero fisso nella mente del ragazzo, una sensazione di attesa quasi positiva, che gli permetteva di vedere la fine di tutto come una liberazione.
Non riusciva nemmeno più a trovare il senso dei suoi pensieri per Giuditta, tutto aveva perso di significato. Ma per Costante ora si trattava solo di attendere il momento.
«Ora sei pronto. Guardami.»
Il ragazzo incrociò per la terza volta lo sguardo dell'essere, riuscendo finalmente a sostenerlo. Anzi, gli era impossibile distoglierlo, tutta quella luce gli provocava un senso di pace totale. «Grazie Costante, ora conosco pienamente il significato di “vita” che avete voi umani.»
Rimasero a fissarsi, finché l'ultimo pensiero di Costante si perse nella luce.
*
Era ormai passata una settimana da quando Giuditta aveva dovuto dire addio al suo amato.
La ragazza aveva passato gli ultimi giorni nella disperazione più totale, rifiutando ogni contatto coi genitori, restandosene chiusa dentro la sua stanza.
Quella mattina aveva deciso di restare stesa sul letto, assaporando le lacrime che avevano impregnato il cuscino. Non dava più peso a nulla ormai. Nemmeno ai colpi incessanti sul portone di casa che avvertiva sotto di lei.
Sentì i passi attutiti di sua madre che si affrettava per le scale. Dopo poco Giuditta avvertì la porta principale scattare. Ci fu un tonfo. Giuditta udì un grido di sua madre: «Tu!», la donna probabilmente era caduta a terra.
«Si. Sono io.» Sentendo quella voce la ragazza provò un brivido di felicità e scattò fuori dalla stanza, precipitandosi giù dalle scale.
domenica 13 maggio 2012
Prima parte del racconto "La stella"
Come annunciato nel primo post ora pubblichiamo la prima parte del racconto scritto da Ksinin e Gambero intitolato "La stella". La versione che riportiamo di seguito è passata anche dall'editing della nostra collaboratrice Sara, che si è prodigata nel renderlo letterariamente leggibile.
Dateci la vostra opinione, e a breve pubblicheremo anche la seconda parte!
Dateci la vostra opinione, e a breve pubblicheremo anche la seconda parte!
Enjoy!
PROLOGO
Parte
Prima
1630,
Nibizzola, Piccolo villaggio rurale nella campagna milanese.
Peste.
Questa era la parola più sussurrata e temuta in tutta Europa, ed il
piccolo villaggio di Nibizzola non faceva eccezione. Il male nero
imperversava, bussava di casa in casa e non c’era città, villaggio
o sperduta campagna al riparo dal dilagare dell’inarrestabile scia
di morte.
Il
paese era in profonda rovina. Nessuno usciva più di casa e la
maggior parte di coloro che fino a pochi mesi erano gli abitanti di
Nibizzola, in quel momento era riversa per le strade come cadavere.
Il fetore aleggiava in ogni angolo ed in ogni vicolo. Gli unici
esseri viventi che animavano questo cimitero a cielo aperto erano
banditi coperti di stracci, o vagabondi ancor peggio in arnese alla
disperata ricerca di cibo. Qualche raro medico coraggioso ancora si
aggirava per le vie, le inquietanti maschere adunche calate sul volto
nel vano tentativo di evitare il contagio, si affaccendavano di casa
in casa offrendo aiuto e un lampo di speranza.
Tuttavia,
nonostante i loro sforzi molte erano le persone che a Nibizzola
avevano perso tutto; fra queste Costante Sarachi a cui la peste non
aveva lasciato nulla, nè la famiglia, nè un tetto sotto cui vivere.
Le
poche terre che possedeva, ereditate di generazione in generazione
dai Sarachi che furono prima di lui, le aveva cedute alla famiglia
Figini, in cambio della mano della loro unica figlia, Giuditta, di
cui era follemente innamorato, ma soprattutto in cambio di
ospitalità. Dopotutto, rimasto solo alla morte del fratello, seguita
a quella dei genitori, non sarebbe più in stato in grado di
occuparsi di quei possedimenti.
Il
suo amore per Giuditta era
contrastato dai genitori di lei, che avevano accettato il ragazzo
sotto il loro tetto manifestando tutta la loro controvoglia, attratti
solamente dal dono del piccolo terreno che questi aveva ereditato.
Il
fato di Costante però,
gli avrebbe riservato un ultimo scherzo crudele.
I
primi giorni in casa Figini erano trascorsi tranquillamente
contrariamente alle nere previsioni di Costante. I genitori di
Giuditta erano contadini ritrovatisi dal mattino alla sera piccoli
possidenti, e passavano molto tempo immersi in un'inutile lavoro di
contabilità volto a catalogare le poche risorse sopravvissute alla
carestia, il che regalava a Costante una certa quantità di momenti
di sereno silenzio.
Una
monotona quotidianità che si sarebbe sgretolata con la rapidità con
cui l’inverno inghiotte le pigre giornate dell’estate.
Accadde
tutto in una mattinata carica di pioggia: Costante si era svegliato
coperto da uno strato di sudore che non faceva presagire nulla di
buono.
Cercò
di mettersi a sedere sul letto, scoprendo che ogni movimento
aumentava il suo malessere. Percepiva come un fastidio sotto le
ascelle, che andava e veniva quando muoveva le braccia.
Sforzandosi
di superare il dolore che gli provocava il movimento, si toccò la
fronte. Era bollente. Costante non era particolarmente istruito, e
non era certo un medico, ma aveva visto quei sintomi troppe volte sui
suoi cari perduti nel nero male, perché potesse fingere con se
stesso che potesse trattarsi di una semplice febbre, e al sudore
prodotto nella notte si aggiunse ben presto quello causato
dall'ansia.
Che
cosa poteva fare?
Valutò
tutte le opzioni possibili, ma pian
piano in lui si insinuava sempre più la certezza che fosse
inevitabilmente giunta la sua ora.
Il
pensiero travolgeva la sua mente riempiendolo di terrore.
Come
avrebbero reagito i genitori della sua Giuditta scoprendo di avere
un appestato in casa?
Ecco,
l'aveva pensato, e già la realtà di questa parole si insinuava in
lui dolorosa come una lama: si era definito “appestato”, e
guardandosi le enormi pustole che gli erano comparse sulla pelle
dell'inguine non poteva essere altrimenti.
Proprio
mentre stava meditando su come ingannare lo sguardo vigile dei
coniugi Figini, ecco che il padre di Giuditta irruppe nella stanza
per svegliarlo.
«Allora
tanghero, non è mica ora che vieni giù da quel - » il contadino
rimase impietrito quando vide Costante coi calzoni calati che si
fissava la zona inguinale. Ci vollero pochi secondi perché l'uomo
realizzasse la situazione. Si precipitò fuori dalla stanza urlando a
squarciagola il nome della moglie «Maria! Maria! Vieni subito qui!
Il tanghero s'è preso la peste!»
Costante
vide crollare quegli ultimi tenui appigli alla speranza che si era
costruito: era spacciato. Anche se Giuditta si fosse opposta con
tutta sé stessa al volere dei genitori, sarebbe finito fuori casa, a
morire per strada.
Non
voleva morire, ma più di tutto non voleva
essere abbandonato a quel destino da solo.
Quando
venne raccolto,
sollevato come un peso morto da mani rudi e forti, non era però più
in grado di opporre alcuna resistenza.
Rimase
così, inerte, il corpo una volta forte e vitale abbandonato come
peso morto sulla spalla del monatto che era venuto a prenderlo;
riusciva a vedere a malapena, evanescente attraverso il velo della
febbre e quello delle lacrime, la figura del “suocero” sulla
porta di casa: pensò che gli sarebbe piaciuto definire così il
vecchio un giorno.
Le
grida di Giuditta gli giungevano come echi lontani quando venne
gettato per terra e assaggiò con le labbra il sapore amaro dei
ciottoli di pietra ricoperti di polvere della strada.
«Ah!
Non hai nemmeno un soldo addosso, e speri che io ti porti al
lazzaretto del paese qui vicino?! Scordatelo.»
Capì
di trovarsi sulla
strada principale del villaggio, era l'unica costruita in quella
maniera per facilitare il passaggio dei carri verso la piazza del
mercato. Sentì i passi del suo “benefattore” che si
allontanavano. Tentò di sollevarsi, scoprendosi inaspettatamente
pesante e goffo, quando la febbre prese il sopravvento e con essa
arrivarono anche i primi segni del delirio. La volontà di Costante
ormai si era persa quando barcollando caracollò su un ostacolo
inesistente, battendo violentemente la testa per terra. Si abbandonò
stremato alle visioni, che sempre più insistenti gli offuscavano la
mente.
Quando
le forze glielo consentirono, si
girò supino: voleva sentire l’aria sul viso, non ne poteva più
dell’arido sapore della terra sulle labbra, la sete era
insopportabile e la testa gli pulsava senza sosta mentre un rivolo di
sangue gli colava sulla fronte dove l’acciottolato l’aveva
segnata.
Tutta
la sua vista fu inglobata nel grigio cupo del cielo: si aspettava da
un momento all'altro di sentire il viso bagnato dalla pioggia.
In
quel grigiore imperante però, non fu pioggia che vide cadere verso
la linea dell’orizzonte.
Guardando
la sfera celeste illuminare il cielo gli vennero in mente le parole
di Giuditta, in una tranquilla sera d'estate: «Una stella cadente,
esprimi un desiderio!» aveva detto con la sua voce di bambina quasi
donna.
L’unico
desiderio che invadeva la sua mente febbricitante era quello di
tornare da lei, correndole incontro con il corpo forte che ricordava
di aver posseduto prima che quel nero male gli offuscasse la mente,
un corpo sano e vitale che rispondeva suoi comandi, con cui avrebbe
potuto abbracciarla di nuovo. Così, nel delirio della febbre,
Costante iniziò a trascinarsi lentamente verso il punto in cui era
scomparso l’oggetto luminoso caduto dal cielo.
Si
mise ad annaspare nel terreno, le deboli braccia che cercavano di
trasportare il suo corpo ormai inerte sempre più avanti, verso
nemmeno lui sapeva cosa.
Infine,
dopo quelle che gli parvero
ore ed ore di sforzi estenuanti, si ritrovò a strisciare in mezzo ai
campi di grano abbandonati, un'arida distesa nera, come una cicatrice
della terra.
Le
sue mani sanguinanti continuavano, come in preda ad uno spasmo
infinito, ad afferrare la terra umida davanti a sé per farsi strada.
Tutto
stava diventando
terribilmente caldo, ma Costante lo percepiva appena, ogni atomo del
suo corpo concentrato nello sforzo di avanzare mentre la febbre gli
attenuava i sensi impedendogli persino di sentire appieno il dolore
delle ferite e del calore.
Improvvisamente
le sue mani non trovarono più il terreno, annasparono senza riuscire
ad afferrarsi a nulla, non era che un goffo corpo ormai incapace di
ritrovare l’equilibrio, e così il ragazzo rotolò malamente per
una ripida discesa.
Quando
si fermò, aprì a stento gli occhi e vide a pochi passi da lui la
stella, calda e luminosa.
In
quel momento la mente di Costante cedette, e tutto fu buio.
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