giovedì 31 maggio 2012

Quarta parte del racconto "La stella"

Dopo varie fatiche ecco anche la quarta parte del nostro racconto: godetevela e commentate come sempre! Grazie come sempre alla nostra collaboratrice Sara per il suo lavoro di editing.

Enjoy!


PROLOGO

Quarta parte

Il canto dei monaci risuonava in tutta la chiesa come una sola voce, carica di preghiera.
Padre Cesare non partecipava al coro, era entrato nella comunità da troppo poco tempo e preferiva mantenersi in disparte.
L'abate, Padre Evaristo, dirigeva i monaci dall’alto del suo scranno con gesti ampi e armoniosi, come se stesse accarezzando le corde di uno strumento musicale.
Padre Evaristo era abate ormai da qualche tempo, uomo severo, di robusta corporatura per non dire in carne, cosa inusuale vista la ferrea dieta a base di legumi bolliti alla quale ogni monaco doveva attenersi, portava una lunga barba a punta che arrivava fin oltre la cinta del saio; era solito fissarla proprio con la cinta per evitare che questa lo impacciasse nei movimenti, sopratutto quando doveva dirigere il coro.
Padre Cesare lo osservava rapito. Evaristo teneva gli occhi chiusi, preso da una muta preghiera che veniva resa udibile dal coro, le voci che si alternavano in una perfetta melodia altalenante seguendo ogni minimo movimento delle sue mani.
“Ci vorranno mesi prima che riesca a cantare così anch'io” pensò fra sé e sé Cesare.
Nel monastero da cui proveniva, a cantare nel coro era solo una parte dei suoi confratelli, il ristretto gruppo dei conversi, mentre tutti gli altri ne erano dispensati sulla base delle diverse attività a cui potevano essere addetti.
Padre Cesare sapeva di non aver mai posseduto una particolare attitudine per il canto, ma nell'eremo di San Costante vivevano solo sedici monaci, lui compreso, perciò tutti avevano il dovere di partecipare al coro.
In quel momento erano quindici i monaci nella piccola chiesa dell'eremo.
L'assente era Padre Alfredo, un giovane frate, di non più di una ventina d'anni, costretto a letto ormai da giorni da un morbo sconosciuto, dal quale pareva non riuscire a guarire.
Il medico che aveva incontrato alla locanda si presentava all’eremo ogni due o al massimo tre giorni, per sincerarsi delle condizioni di Alfredo. Dal suo arrivo Padre Cesare non aveva ancora avuto modo di incontrare il confratello malato, il dottore continuava a ripetere che poteva essere contagioso e bisognava prestare la massima attenzione, adottando ogni precauzione possibile affinché il male non si diffondesse.
Venne addirittura suggerito di trasferire Alfredo nel più vicino ospedale, ma il malato per primo si era opposto fermamente, sostenendo tra i gemiti che il suo destino era nelle mani del Signore come doveva essere, e non avrebbe accettato di essere allontanato dalla sua comunità.
Evaristo aveva confessato a Cesare che nessuno dei monaci aveva avanzato obiezioni, assecondando la sua scelta e motivandola come una prova di fede davanti alle insistenze del medico, e a nulla erano valse le sue recriminazioni: « Se mi consentiste di portarlo in una struttura adeguata, probabilmente sarebbe in piedi in pochi giorni!» si lamentava senza risultato.
«Cesare.»
La voce lo riscosse dai suoi pensieri.
Padre Durante lo stava fissando. Era uno dei monaci più socievoli, e l'unico con cui fino ad ora aveva avuto modo di scambiare più di qualche parola.
Conversando con lui aveva scoperto con sollievo che nessuno era stato informato della vera causa del suo arrivo a Nibizzola, questo lo aveva reso più rilassato, e aveva cosi riacquistando un po' della serena giovialità che gli era propria.
Non si era reso conto che i canti erano conclusi, i monaci stavano già uscendo dalla chiesa per recarsi a consumare il pasto serale.
«Durante, sei rimasto qui ad aspettarmi?»
Durante aveva passato i quarant'anni, era uno dei pochi confratelli a non portare la barba ed aveva perso ormai completamente i capelli. Gli occhi azzurri erano sempre vispi, come alla ricerca di qualcosa, espressione di un fine intelletto che Cesare aveva potuto apprezzare nel corso delle loro conversazioni.
«Stasera Evaristo sarà ancora di veglia al povero Alfredo, speriamo che passi anche questa notte come le ultime tre» esordì Durante.
«Già, ma io continuo a non essere convinto. Il mio vecchio abate non ci avrebbe pensato due volte e lo avrebbe costretto a sottoporsi a delle cure più accurate, visto che la possibilità esiste, ma qui sembra che si dia più ascolto ad una mente resa folle dalla malattia piuttosto che al parere del medico».
«Mi è parso di capire che tu sia stato trasferito qui proprio per “un crollo di fede”. Considera questa una prova del Signore, assistere Alfredo nel suo travaglio potrebbe aiutarti a capire se sei in grado di ritrovare la fiducia nell’opera di nostro signore. D'altro canto è anche vero che Dio ti aiuta se Tu ti aiuti. In effetti, se anche decidessero di trasferirlo momentaneamente in ospedale dubito che questo possa peggiorare ulteriormente la sua condizione, ma è una decisione che spetta al diretto interessato. Chi siamo noi per poter imporre al nostro confratello la nostra volontà? Sappiamo forse dire cosa è meglio per lui?».
«Siamo davvero tutti nelle mani del Signore»
«Così sia»
Si avviarono fuori. L'eremo aveva un ampio cortile centrale, in cui trovavano posto una stalla e la piccola chiesa in cui ultimamente si riunivano sempre più spesso a pregare per la salute di fratello Alfredo.
“Posso solo sperare che abbiano ragione. Forse ho davvero perso la fede, ed è una cosa di cui non riesco a capacitarmi, ma non riesco a vedere oltre il fatto che c'è un malato che sta morendo in una delle nostre celle, e nessuno fa niente per aiutarlo davvero”.
Poi improvvisamente, come una fitta, gli giunse doloroso alla mente il ricordo della causa per cui si trovava lì: “In effetti, chi sono io per poter giudicare la fede altrui, io che ho contravvenuto così tanto ai principi del mio ordine da ridurmi per la vergogna a voler raggiungere il Signore compiendo il peccato supremo... No, devo essere forte, come lo ero una volta. Devo avere fede che Alfredo ce la possa fare, e che San Costante vegli su di lui. Che possa avverarsi un altro miracolo dove la forza dell’uomo non dovesse bastare a salvarlo”.
Il miracolo.
Era giunto da un giorno soltanto quando Padre Evaristo gli aveva raccontato di come un contadino sconosciuto avesse salvato dalla peste un intero villaggio.
Costante Sarachi, era questo il suo nome prima di divenire Santo. Era vissuto a Nibizzola circa cento anni prima, nel periodo in cui la peste affliggeva quelle terre.
«La storia narra che il ragazzo era stato contagiato dal nero male, preso dalla sconforto aveva scelto di abbandonare famiglia ed amici per recarsi alla ricerca di un luogo in cui morire in pace, senza rischiare di diffondere ulteriormente il morbo. Questa scelta era stata dettata anche dall'amore che provava per Giuditta, sua promessa sposa», lanciata un’occhiata al suo interlocutore per vedere se lo stava ascoltando con sufficiente interesse, poi l’abate aveva proseguito nel racconto «Quando ormai tutti si erano rassegnati alla sua morte, Costante però fece ritorno, completamente guarito, alla sua dimora. Con se portava solo una piccola ampolla piena d'acqua purissima, donatagli da un angelo per debellare il male dal suo villaggio».
Secondo la storia riportatagli dall’abate, purtroppo durante l’assenza di Costante il padre della sua amata Giuditta era stato colpito duramente dalla malattia. La disperazione della famiglia però si era tramutata in stupore e successivamente in gioia, quando Costante aveva versato poche gocce d'acqua sulla bocca dell'uomo ormai morente: fu così che avvenne il primo miracolo.
In pochi giorni l'adorato suocero si riprese del tutto, dando modo finalmente a Costante e Giuditta di sposarsi sotto la sua paterna benedizione.
In brevissimo tempo la voce del miracolo si era sparsa per tutto il villaggio, e così iniziò una vera e propria processione di bisognosi verso l'abitazione di Costante. Molte furono le persone graziate dall'acqua santa, tanto che nel villaggio non vi era quasi più traccia di ammalati.
Quando però la notizia dei miracoli iniziò a diffondersi oltre i confini di Nibizzola l'ampolla era ormai vuota. Costante decise quindi di preservarne il poco contenuto rimasto, nel caso in cui il nero male fosse tornato ad affliggere il suo villaggio, cosa che però non accadde mai.
Costante concluse la sua vita in tranquillità, assieme alla sua sposa. Prima di morire donò la sua ampolla ad un ordine di monaci eremiti, che la custodirono in un luogo sicuro, fondando qualche anno dopo l'eremo di Nibizzola, divenuto eremo di San Costante a seguito della beatificazione del contadino, richiesta a gran voce da tutto il villaggio.
“Ora la reliquia si trova qui, a due passi da me” pensò Cesare attraversando il piccolo cortile fuori dalla chiesa. I monaci l'avevano chiusa dentro l’imponente altare di marmo e solamente l'abate era in possesso della chiave in grado di aprire il piccolo antro che la custodiva.
“Forse un giorno riuscirò a vederla. Chissà, magari rimane ancora dell'acqua Santa al suo interno.” Cesare era quasi incantato dall'idea che esistesse una sostanza simile, e forse anche Alfredo sarebbe potuto guarire in breve tempo utilizzandola.
Seguito da Durante varcò il portone della sala comune dove gli altri monaci li stavano aspettando per la preghiera prima della cena.
Restavano liberi i primi due posti vicino all’ingresso, così Cesare e Durante vi si accomodarono. Accanto a loro sedevano rispettivamente Padre Raffaello e Padre Germano che, non appena ebbero terminato le preghiere, spezzarono due fette di pane e gliele porsero. Cesare accettò e per ringraziare Germano annuì insistentemente con la testa, scandendo in silenzio il labiale di «Grazie». In tutta risposta l’anziano monaco, ormai quasi completamente sordo, voltò il capo bruscamente ed iniziò a sorseggiare il suo brodo di verdure. Durante lo aveva avvertito del carattere burbero del fratello, che andava peggiorando con l’avanzare della sordità.
«Fate attenzione al brodo, è bollente» sussurrò Raffaello. Era il cuoco dell’eremo, portava una folta barba arricciata che arrivava a coprire anche parte delle orecchie, dove terminava in due ciuffi incolti di peluria grigia.
La cena si concluse nel silenzio più assoluto e i monaci si diressero ancora una volta verso la piccola chiesetta per le preghiere serali. Una volta terminate, quando oramai gli ultimi raggi del sole erano svaniti, tutti i fratelli fecero ritorno ai loro alloggi al primo piano dell’eremo, per coricarsi nelle rispettive celle.
Cesare li seguì. Entrato nella sua spoglia stanzetta, restò per qualche minuto affacciato all’unica piccola feritoia, ad ammirare il giardino, il movimento delle foglie che si intravedeva appena grazie al tenue chiarore della luna: si poteva scorgere il piccolo spazio dedicato al cimitero, in cui le salme dei fratelli si riconciliavano con il terreno. All’altro lato del giardino, erano invece appena visibili gli orti, in cui i monaci coltivavano tutti i legumi necessari per la loro tavola.

Fu improvviso.
La vide allungarsi sotto la luce lunare, diretta verso il cimitero.
Un’ombra si aggirava per il cortile, quando tutti i fratelli dovevano essere nei loro alloggi.
“Dio, prego per la tua misericordia, fa che non sia morto Alfredo”
Solitamente però venivano suonate le campane quando un lutto colpiva una comunità monastica, mentre in questo caso era evidente che il silenzio regnava sovrano.
L’ombra svanì in un angolo del cortile dove la luna non arrivava a schiarire il terreno.
Cesare rimase in attesa qualche minuto alla finestra, poi sentendo che il sonno iniziava ad annebbiargli la ragione, ringraziò Dio per la giornata appena trascorsa e si sdraiò sul suo piccolo materasso. Mentre si coricava, decise che doveva avere avuto un abbaglio causato dalla stanchezza, dopotutto l’ombra poteva essere un animale notturno che si aggirava in cerca di piccole prede, come topi che cosi numerosi si aggiravano per le vicine stalle.
“Dormi Cesare, non puoi diventare paranoico dopo solo una settimana di convivenza, domani tutto sarà nella normalità”
Prima che i fantasmi della sua storia tornassero a tormentarlo il sonno lo strappò alla realtà.

Si svegliò di soprassalto all'alba. I rintocchi delle campane, puntualissimi come al solito, segnavano l'inizio della giornata per tutto l'eremo. Cesare riallacciò il saio e si incamminò verso la chiesa per le preghiere mattutine. Una volta concluse, venne subito raggiunto da Padre Adriano:
«Buongiorno Cesare!»
«Buong-»
«Oggi abbiamo un compito molto molto importante, il tuo primo incarico!». La sua voce suonava fin troppo entusiasta.
«Bene, di qualsiasi cosa si tratti, io sarò molt-»
«Il medico ha chiesto ad Evaristo di cercare informazioni nella biblioteca, tutto quanto si possa trovare riguardo alla malattia di Alfredo, e noi gliele troveremo!»
«Benissimo, dove dobb-»
«Seguimi, seguimi!» lo incalzò.
Cesare non poté fare altro che avviarsi dietro l'iperattivo monaco. Nonostante il fisico cadente del confratello non proprio nel fiore dell'età, il suo passo era decisamente spedito. A Cesare ricordò la buffa imitazione di una marcia militare, i lunghi capelli del monaco che ondeggiavano a destra e a sinistra, rimbalzando sulle spalle ad ogni passo.
Gli occhi di Adriano si muovevano in continuazione come alla ricerca di qualcosa che il frate non riusciva mai a trovare, e Cesare si era convinto alla fine che nemmeno lui sapesse cosa cercava.
Arrivarono alla biblioteca dell'eremo, proprio mentre l'abate Evaristo stava uscendo.
«Ah bene, siete arrivati. Ero entrato a controllare che fosse tutto in ordine per la vostra ricerca. Ci auguriamo tutti che riusciate a scovare qualche annotazione su questo morbo, ne va della salvezza di Alfredo. Abbiate fede e troverete, Dio è sempre con noi, anche in questi duri momenti. Alfredo ne è la riprova, sente che in questo luogo è custodito il segreto della sua guarigione, il Signore glielo ha fatto capire».
«Se c'è anche solo un richiamo al morbo in queste pagine, lo troveremo!» Adriano era incontenibile nel suo entusiasmo, la sua voglia di fare era contagiosa.
Si misero subito al lavoro, posando sull'enorme tavolo della biblioteca varie pile di manoscritti che erano stati prodotti e accumulati sin dalla fondazione dell'eremo, circa sessant'anni prima.
Le ricerche durarono molto più di quanto entrambi i confratelli avessero potuto immaginare. Giunto il tramonto del secondo giorno di ricerche, Cesare e Adriano non erano riusciti a trovare nessun riferimento al morbo nei manoscritti redatti nei primi dieci anni di vita dell'eremo. Durante i due giorni che avevano trascorso lavorando incessantemente, le condizioni di Alfredo erano costantemente peggiorate, e il medico sbraitava sempre più forte insistendo che venisse trasferito fuori da “Questo luogo di rimbecilliti!”.
Poi, la mattina del terzo giorno di ricerche, un colpo sul tavolo interruppe bruscamente la lettura frenetica di Adriano.
«Qui! Qui c'è qualcosa!»
Cesare mostrò al compagno quello che aveva trovato. Scritti malamente da un fratello vissuto circa quarant'anni prima di loro erano riportati i medesimi sintomi che presentava Alfredo: febbre altissima, unita a crisi di spasmi muscolari involontari che costringevano l'ammalato a giorni e giorni di agonia, avevano preceduto la morte sopraggiunta dopo un'ultima violenta crisi resa fatale dall'indebolimento progressivo.
«Perfetto! Lo porto subito ad Evaristo!»
Adriano sparì di corsa dietro la porta della biblioteca portando con lui il manoscritto.
Rimasto solo Cesare decise di continuare a sfogliare i manoscritti più recenti, sperando di trovare qualche altro riferimento che potesse rivelarsi utile.
Rintracciò la data di morte del monaco stroncato dal morbo in un manoscritto che fungeva da necrologio: “Anno del decesso: 1686, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo”.
“Se avessero continuato gli studi magari adesso sapremmo cosa fare, a volte sembra che per la salvezza dell'anima si debba per forza rifiutare la salvezza terrena. Signore mio, cosa dovremmo fare? Se questo morbo si ripresentasse in futuro non sarebbe meglio studiarlo a fondo, anche sul corpo di un fratello che ci ha lasciato? Non sarebbe comunque fatto in nome Tuo? O forse è una punizione per la nostra incapacità di amarti pienamente?” Afferrò un altro tomo e ricominciò a sfogliare le pagine.
«Non può essere...» Per la sorpresa aveva parlato ad alta voce.
Anno del decesso: 1700, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Ebbe un presentimento orribile.
Continuò a leggere solo i necrologi: “Anno del decesso: 1716, causa non riconducibile, morbo non riconosciuto, impossibile effettuare ulteriori studi sul corpo senza cadere nel blasfemo.”
Fece un rapido conto degli anni che separavano ogni morte.
Si alzò di scatto dalla sedia.
“Devo vedere Alfredo.”

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