martedì 12 giugno 2012

Quinta parte del racconto "La stella"

Scusate il ritardo ma questa volta abbiamo dato fondo alla nostra fantasia e si è resa necessaria qualche pagina in più. I ringraziamenti vanno come al solito a Sara per il suo lavoro da editor che è davvero insostituibile!

Enjoy!


PROLOGO

Parte quinta

Non possono credere che siano solo coincidenze.” Padre Cesare stava osservando pensieroso il giardino dalla piccola feritoia della sua cella, come faceva ormai da un paio di notti, prima di farsi prendere dal sonno.
Evaristo è convinto che le morti segnate nei necrologi non siano fra loro collegate… Come può pensare una cosa del genere? I sintomi sono gli stessi, persino le sentenze di morte sono identiche! Se nemmeno un medico è in grado di riconoscere il morbo con precisione, come può pretendere di trovare una cura nella nostra biblioteca, qui dove tutto è affidato alla grazia divina!”
«Le tue sono solo supposizioni, nate dal fatto che vuoi renderti utile, Cesare. La tua passione è encomiabile ma non crucciarti cosi. Anche se non siete riusciti a trovare qualcosa che possa curare il povero Alfredo il vostro impegno è stato certamente riconosciuto dal Signore, e vedrai che il vostro lavoro non sarà vano» Evaristo era stato chiaro, non avendo trovato qualcosa di simile a una cura, ogni altra presunta scoperta ricavata da quel mare di scartoffie era, nei fatti, completamente inutile.
No, io credo che qualcosa sia accaduto qui, e stia accadendo di nuovo, le date parlano chiaro. Circa ogni quindici anni qualcuno si ammala e alla fine muore dello stesso morbo. Questo si ripresenta nello stesso modo ogni volta, ma nessuno sembra farci caso. Non possono...” il corso dei suoi pensieri si interruppe bruscamente. La vide. Di nuovo.
L'ombra stavolta si muoveva lentamente, e Cesare poté osservarla meglio: era una figura umana, ora la distingueva molto più chiaramente, e dal momento in cui se ne rese conto, il tarlo della paura si insinuò in lui.
E' quella dell'altra volta, non c'è dubbio.”
Ne era certo ad un livello intimo, come se la sensazione di inquietudine che trasmetteva la rendesse inconfondibile ai suoi sensi.
Questa volta era emersa dall'area buia che era il piccolo cimitero dell'eremo.
Cesare la vide dirigersi con innaturale lentezza verso il porticato tra i giardini e il cortile interno. Proprio quando stava per uscire dalla sua visuale, l’ombra si fermò di colpo.
Cesare non poté trattenere un fremito. “Dio, fa che non mi abbia visto” pregò.
La figura non era che un’ombra lontana, ma Cesare poté chiaramente distinguere quando questa alzò la testa verso di lui.
Luce.
Gli occhi erano come due piccoli soli che squarciarono il velo di buio della cella di Cesare. “Signore, vengo a raggiungerti” pensò. Non riusciva a distogliere lo sguardo, e la luce intorno a lui si faceva sempre più intensa e calda. Improvvisamente si ricordò di ciò che stava accadendo nell'eremo, del motivo per cui era stato trasferito lì.
No, Dio, devo ancora fare ammenda per i miei peccati, non è ancora giunto il mio momento, ti prego lasciami un altro po' di tempo e potrai fare di me ciò che vorrai, ma prima voglio essere un tuo strumento ancora una volta e portare il bene in questo mondo. Dio, Ascoltami!” si ritrovò ad implorare silenziosamente mentre la luce si faceva insopportabile.
E Cesare seppe che per lui era la fine.

«NO!»
Si era svegliato in un mare di sudore: l'unico rumore che percepiva era il suo stesso rantolo affannato, causato dallo spavento.
Si vestì, continuando a tornare con la mente al sogno di quella notte, non gli capitava da molto tempo di fare incubi.
Ormai è tardi, ed esso fa parte della notte” concluse infine. Ma i sogni sono così, anche i più angosciosi scorrono via come acqua tra le dita al levarsi del sole, e infatti anche l’ultimo ricordo residuo di quelle immagini si perse nel vuoto, lasciando libero Cesare di dedicarsi alla giornata.
Si recò come sempre in chiesa per le preghiere mattutine; quando queste finirono Durante gli andò subito incontro.
«Allora Cesare, sei riuscito ad ottenere il permesso di vedere Alfredo?»
«Non ancora, il medico ormai è intrattabile. Consente solo ad Evaristo di entrare. Non è ancora riuscito a capire se il morbo può diffondersi o meno.»
«Mi sembrerebbe giusto farti entrare da lui almeno una volta, per conoscerlo, visto che ti sei impegnato molto nel cercare una possibile cura. Ne hai parlato con Evaristo?»
«Si, ma non vuole che rischi di ammalarmi. Soprattutto non accetta le mie ipotesi sul fatto che questo morbo si ripresenti a intervalli regolari. Secondo quando riportato nei testi i sintomi sono chiaramente sempre i medesimi e nessuno è mai stato contagiato, oltre alla persona in questione.»
Durante rimase a fissarlo per qualche secondo, i suoi occhi tradivano un’intensa attività di pensiero. Alla fine il fratello rispose: «Proverò a parlare io con Evaristo. Visto che siamo arrivati in quest’eremo praticamente insieme, probabilmente ho più possibilità di convincerlo a farti entrare.»
«Ti ringrazio. Non faresti solo un favore a me, ma anche ad Alfredo.»
Durante si congedò con un sorriso benevolo e si avviò sotto il porticato.
Cesare si diresse verso la biblioteca, dove era stato definitivamente assegnato come aiutante di Padre Adriano. Al contrario delle aspettative di Cesare, il bibliotecario una volta nel suo ambiente diveniva una persona silenziosa e concentrata, che non aveva nulla a che fare col carattere focoso ed impulsivo che esibiva al di fuori.
Cesare trascorse la giornata sistemando pile di tomi, lasciati in eredità all’eremo da un vecchio nobile di Nibizzola, deceduto da poco. Quando terminò di catalogare tutto, nel tardo pomeriggio, Adriano lo congedò, lasciandolo libero di andare a pregare in chiesa, in attesa della cena.
Mentre scendeva le scale che davano sul porticato, la sua attenzione venne attirata da una strana scena. A poca distanza da lui, nella penombra del tramonto, Evaristo e Durante si fissavano, l’uno da un lato all’altro del portico, i loro sguardi indecifrabili davano l’idea che si fosse appena conclusa una conversazione alquanto accesa ma nessuno dei due pronunciava più una parola. Cesare rimase bloccato sulle scale, incapace di comprendere se ci fosse tensione o meno fra i due. Alla fine Evaristo spezzò il silenzio:
«D’accordo» disse, e si avviò con passo deciso verso la chiesa.
Cesare finì di scendere gli ultimi gradini e salutò Durante: «Dante, tutto bene?»
«Cesare, ho una buona notizia. Sono riuscito a convincere l’abate a farti visitare Alfredo» gli rispose questo sorridendo.
«Spero che ciò non ti abbia creato problemi con Evaristo.»
«No, non preoccuparti. Credo che alla fine anche lui abbia capito che questo può aiutare ad alimentare la tua fede. Il Signore ti proteggerà, non temere.»
«Grazie Dante, ti sono debitore.»
«Tranquillo, non esistono debiti tra fratelli» lo rassicurò.
«Vedrai che il mio intervento non sarà vano»
«Non ho dubbi » concluse Durante, e si allontanò con un ultimo sorriso.
E’ il momento” pensò.
Provava una strana ansia per quello che si accingeva a fare, ma ci aveva riflettuto a lungo negli ultimi giorni ed ora si scopriva più determinato che mai.
Tutti i fratelli erano già riuniti in chiesa per le preghiere serali, quando si trovò, solo, davanti alla porta della cella di Alfredo, fermato da una strana sensazione. Quando si accorse che la mano gli stava tremando, bloccata nel gesto di aprire la porta, si riscosse ed entrò con decisione.
Alfredo era steso sul letto, in una posizione che chiunque avrebbe trovato più che scomoda: gli arti superiori ormai irrigiditi, uno steso lungo il fianco, l'altro sollevato fin sopra la testa. Le dita delle mani sembravano rotte da quanto deformi, ma la cosa più sconvolgente era certamente il viso: la parte sinistra del volto era contratta, sfigurata da una smorfia, lo zigomo talmente sollevato da schiacciare l'occhio nella sua stessa orbita.
«Ch-chi è?» La sua voce era il lamento di un vecchio.
«Buona sera Alfredo, sono Padre Cesare, un fratello arrivato da pochi giorni. Volevo fare la tua conoscenza.»
«P-piacere di conoscerti... F-fratello.»
«Come stai?»
Alfredo girò appena la testa, per cercare di guardarlo negli occhi, lo sforzo gli costò un basso gemito che non riuscì a trattenere. Era evidente che ogni minimo movimento doveva procurargli dei dolori lancinanti.
«Il corpo sembra dire il contrario, ne sono consapevole, ma nella mia anima sono sereno.»
Cesare si sedette accanto al letto, per permettere ad Alfredo di guardarlo in viso senza doversi scostare dai cuscini che lo sorreggevano.
«Mi hanno raccontato della tua fede incrollabile, che ti spinge a restare qui al monastero nonostante tutto il dolore che provi.»
«Il Signore è con me, in ogni momento. L-lo sento vicino anche ora... È lui che ti ha portato da me.»
Si, evidentemente il Signore mi ha fatto trovare quei necrologi” pensò Cesare.
«Il medico cosa ne pensa?»
«I-il medico continua a dire... C-continua a dire che se resterò qui morirò» disse.
«Non credi che possa aver ragione?»
Alfredo sospirò. «P-potrebbe anche aver ragione... m-ma io reputo questa malattia una prova di Dio per purificare i miei peccati... una v-volta conclusa... c-che io sia qui o meno avrà poca importanza... l-la mia anima sarà pura, e io sarò in p-pace col Signore... e con me stesso.»
«Alfredo, tu hai poco più di vent'anni. Come puoi pensare di aver commesso dei peccati tali da meritarti questo tormento?» lo sguardo di Cesare era pieno di tenerezza.
Io avrei meritato tutto questo, non certo tu.”
Alfredo ricambiò lo sguardo del confratello, quasi con pietà, e Cesare intravide un sorriso amaro attraverso la maschera deforme che era ormai il suo viso.
«A-avevo circa dieci anni quando i miei genitori morirono... m-mi rimase solo una cosa, il nulla. L'incendio... l'incendio che aveva distrutto la nostra casa si portò via loro e tutti i nostri averi...» Fece una pausa, il respiro affannato, Cesare continuò a fissarlo in silenzio, poi Alfredo continuò: «D-divenni un randagio, costretto a vivere di stenti... c-col rischio di morire ogni giorno in qualche vicolo... A-alla fine iniziai a rubare... i primi anni mi limitavo a sottrarre qualche frutto o p-pezzo di pane nei mercati... p-poi crescendo la cupidigia si era impadronita di me.. E-entrai a far parte di un masnada di f-farabutti... c-con loro avevo almeno vitto e alloggio... c-credevo di aver trovato una nuova casa, per quanto squallida fosse... ma avevo trovato il diavolo.»
«Strade di quel genere purtroppo non portano mai a cose buone.» annuì Cesare, ma il racconto di Alfredo non era finito, il suo respiro si faceva sempre più pesante, ma subito riprese a parlare.
«D-derubavamo case di mercanti e nobili... Dalla nostra avevamo il fatto di essere giovani e forti... non eravamo certo organizzati ma i-in qualche modo riuscivamo sempre a scamparla.»
«Nessuno può andare avanti a lungo conducendo una vita del genere. Come sei arrivato fino a qui? Dove hai trovato la fede che ti sostiene anche ora?» lo interruppe Cesare, non era un confessore e si sentì in dovere di fermare il fratello prima che finisse per condividere con lui troppi dettagli.
«Q-questo è uno dei capitoli più bui della mia vita... c-capitò sette inverni fa... Avevamo adocchiato la casa di una vecchia s-signora... e-era la moglie di un contabile, deceduto da pochi mesi... e-era rimasta da sola con tutti gli averi del marito... n-noi scherzavamo sul fatto c-che nel t-tempo che le restava da vivere non sarebbe mai riuscita a spendere t-tutto, le avremmo fatto solo un f-favore privandola di qualche gioiello.»
Cesare lo osservava. Quello che vedeva era un uomo sostenuto dalla voglia di redenzione. Iniziava a sentire dentro di se una strana empatia verso il ragazzo “Dopo quello che ho commesso potrò mai diventare tanto forte anche io?” si domandava.
Alfredo proseguì: «C-colpimmo di notte, come al solito... c'era molto più oro di quello che avessimo mai immaginato... i-io osai più di tutti gli altri, mi azzardai fin nella s-stanza da letto, senza fare rumore... e l-lì trovai la signora che dormiva, ignara della mia presenza. P-preso da una maniacale cupidigia afferrai istintivamente la collana lasciata sul comò affianco al letto... e-era l'unica cosa di valore che avevo individuato in quella camera, doveva essere mia... a-alla fine scappammo, con tutta la refurtiva. Ebbi un moto di rabbia il giorno dopo, quando mi accorsi che la collana che avevo preso non era d'oro, ma solamente di metallo brillante... P-preso dalla furia ritornai di corsa alla villa della signora, con l'intenzione di frantumargliela contro il muro esterno, perché la trovasse... Q-quando arrivai li però trovai una folla di persone ammassata contro il c-cancello... Incuriosito mi a-avvicinai e chiesi ad uno dei presenti cosa fosse successo, g-gongolando nel conoscere già la notizia che mi attendeva... Q-quello che ottenni però fu un colpo al cuore: “Quei tangheri maledetti! Le hanno rubato tutto, davvero tutto! Le guardie hanno trovato la signora impiccata nella sua stanza! Ha persino lasciato un foglio per quei bastardi maledetti! Dice che avrebbe sopportato il furto di qualunque cosa, ma non dell'unico ricordo legato al suo povero figlio, perduto qualche anno fa: la sua collana! E la beffa più grossa è che non valeva niente! Spero che quei maledetti marciscano all'inferno, nel rimorso di quello che hanno compiuto!”»
Cesare rimase bloccato, un peso gli premeva sul cuore, improvvisamente in quella piccola stanza si sentiva soffocare: “Ora capisco Signore, le tue vie sono davvero infinite. Intendi mostrarmi la strada che devo seguire mettendomi di fronte a peccati simili ai miei?”
«D-da quel giorno una pietra venne calata sulla mia anima... d-decisi che dovevo rimediare in ogni modo a quello che avevo compiuto... p-per la prima volta nella mia vita, in preda al rimorso, mi confessai in chiesa... I-il parroco, benedetto sia per l'eternità, m-mi accolse sotto la sua ala, mostrandomi la via da seguire... Alla fine presi i voti, ma sentivo c-che ancora non era sufficiente... p-per mondarmi dal terribile peccato che avevo commesso non sarebbe bastata tutta la mia esistenza. Per questo decisi di entrare nell'eremo di Nibizzola, p-per dedicare la mia vita solo ed esclusivamente al Signore... Q-quello che mi sta accadendo adesso è soltanto una prova in più a cui Dio mi ha destinato nel lungo cammino che m-mi condurrà infine da lui.»
Cesare non ricordava più nemmeno il motivo per cui si era tanto voluto recare lì.
Tutto quello che custodiva dentro di se da così tanto tempo premeva per uscire fuori con una furia incontrollata, che gli stava diventando insopportabile.
«C-cesare, tu perché sei giunto in quest'eremo?»
La domanda, così diretta, lo spiazzò per un attimo, ma sentì che doveva liberarsi di quel peso, era il momento, il luogo, e non aveva senso trattenersi oltre: “Che persona meschina sono. Ho il coraggio di confessarmi solo ad un morente” si rimproverò.
«Voglio che tu sappia fin da subito che io non ho preso i voti perché ho sentito la chiamata del Signore. Fu la povertà della mia famiglia a costringermi a questa scelta. Per quanto fossi stato sempre molto credente immaginavo la mia vita come quella di un uomo normale, volevo creare una mia famiglia e vivere in pace. Purtroppo però ero l'ultimo di tre fratelli ed i miei genitori non sarebbero mai riusciti a mantenerci tutti quanti. Così non appena raggiunsi l'età giusta venni spedito in seminario. Inizialmente non riuscivo a concepire il fatto di essere stato allontanato da casa per una mera ragione economica, ma alla fine capii. Davanti a me si presentò il disegno che Dio aveva preparato per farmi trovare la vera fede. Ogni cosa era al suo posto, e riuscivo a sentirmi in pace. Riuscii a ringraziare anche i miei genitori per la scelta che mi avevano imposto.»
Cesare sospirò, poi proseguì: «Quanto mi sbagliavo. Mi ero illuso di aver trovato la vera fede, ma dentro me albergava ancora, anche se in piccola parte, il rimpianto per non aver ottenuto la vita che desideravo.»
Si interruppe un istante, come per ritrovare un’immagine lontana, sepolta nella mente: «La conobbi durante una benedizione pasquale. In quel periodo mi aggiravo per le case del mio paese, per portare la protezione di nostro Signore sulle abitazioni dei fedeli.
Era la figlia di un commerciante della zona. Fu lei ad aprire la porta al mio arrivo; era rimasta in casa da sola a svolgere le faccende domestiche mentre i genitori erano al lavoro. Terminata la benedizione mi chiese se potevo rimanere un po' in casa assieme a lei, per farle compagnia, visto che passava sola la maggior parte del suo tempo. Era l'ultima casa che dovevo benedire, per cui non vidi nulla di sbagliato a rimanere a chiacchierare un po' con quella giovane. Si chiamava Eleonora, e Dio solo sa quanto l'ho amata» abbassò gli occhi, non aveva la forza di cercare in Alfredo uno sguardo di comprensione.
«Nei giorni seguenti la rividi sempre più spesso in chiesa, e ogni volta veniva da me per parlare dei suoi problemi di fanciulla, ma sopratutto del suo innamorato che non si era ancora accorto di lei, e ciò le provocava un dolore sempre più grande. Era un ragazzo che vedevo sempre nelle messe domenicali: giovane e forte, ma conteso tra molte delle donne del paese. Fu in quei momenti che quella parte di me che credevo ormai sepolta tornò ad emergere.
Iniziai a provare una sorta di invidia verso quell'uomo così fortunato da poter persino scegliere la donna con cui vivere per sempre, la donna da amare per la vita e da cui avere degli eredi.
Questo sentimento si faceva ogni giorno più incontrollabile, e alla fine si tramutò in gelosia verso Eleonora. Speravo ancora che tutto si sarebbe fermato a questo.
Alla fine decisi di dare un taglio a questa situazione, e così arrivai a consigliarle con slancio di confessare direttamente il suo amore, era una delle fanciulle più graziose del paese, ed ero sicuro che sarebbe stata accettata. Invece accadde qualcosa che sconvolse tutto.»
Finalmente riusciva a parlarne con qualcuno. Alfredo ascoltava in silenzio, l'attenzione completamente rivolta alla storia di Cesare.
«Era una sera di tempesta, i tuoni rimbombavano nella chiesa in modo così minaccioso da parere la voce stessa del diavolo che urlava tutta la sua rabbia dall'inferno. E alla fine il maligno davvero si presentò. Mi trovavo nel confessionale, in attesa di qualche sventurato disposto a sfidare il maltempo per venire a rendermi partecipe dei suoi peccati.
Ero perso nell'ascoltare la pioggia battente quando udii la sua voce dall'altra parte della grata. La riconobbi immediatamente, era lei». Nel ricordare la sua voce, quella di Cesare ebbe un tremito. “Padre, ho mentito, ho mentito così tanto da non riuscire più a sopportarlo” gli aveva sussurrato.
«Le dissi di confessare tutto liberamente, dopo qualche istante di incertezza lei riprese a parlare, e quel che disse fu quanto di più sconvolgente potessi credere di ascoltare.
Padre, ho mentito a te, solamente a te” continuava a ripetere, mentre io non riuscivo a capire. Iniziai a diventare inquieto, e le chiesi di spiegarsi, ma in tutta risposta sentii bussare al portoncino del confessionale. Aprii.» e le parole uscirono una dopo l’altra, incontrollabili,come un fiume in piena, mentre Cesare si lasciava travolgere da quel ricordo incapace di arrestarsi.
«Venni assalito dal diavolo. Ricordo l'odore dei suoi capelli bagnati dalla pioggia, e il sapore delle sue labbra umide. Nonostante fosse il demonio, era estremamente piacevole.
Così piacevole da trasmettere in me lo stesso seme del male. Non avevo mai avuto contatti con una donna prima di prendere i voti. Il sapore del peccato è sempre lo stesso, in qualunque forma esso si presenti. Credo di essere stato posseduto dal maligno in quel momento, perché ricordo pochissimo di quell'ora fatale. Quando mi riebbi, lei era stesa sulla panca del confessionale, con il mio saio a coprire le sue nudità mentre dormiva. Non sapevo cosa fare. La mia mente non riusciva a concepire quello che era appena successo, e credetti davvero di divenire pazzo, più di una volta me lo ripetei, mentre cercavo di dare un senso a tutto».
Si prese la testa, fattasi improvvisamente più pesante, tra le mani, e proseguì: «Passarono i giorni, e alla fine i mesi. Gli alberi avevano abbandonato le foglie, ma il peccato non ci aveva mai lasciati. Continuavamo a frequentarci, i nostri incontri avvenivano per lo più a casa di lei, quando era sola. Arrivai a convincermi che fosse davvero amore quello che era nato tra noi due, un amore puro di quello benedetto dal Signore, ma la parte ragionevole del mio essere urlava tutta la vergogna per quello che stavo compiendo.
Lei era nel fiore degli anni, una creatura talmente innamorata dello stesso concetto d’amore da non rendersi nemmeno conto di quanto fosse sbagliata la situazione che si era venuta a creare. Ma io volevo essere cieco a tutto questo.
Continuava a ripetermi che finché poteva restare con me non le importava di nient'altro.
Eppure, nonostante io stesso fossi perso in un sentimento che non avevo mai provato prima, la ragione riprese il sopravvento quando lei avanzò l'idea più assurda che si potesse immaginare: mi chiese di concepire un figlio.»
Alfredo lo guardava con la pietà di chi comprende a fondo le sventure avute in comune, mentre Cesare riprendeva fiato per poi proseguire.
«Ebbi finalmente il coraggio di dire basta a quella relazione incresciosa. Eleonora divenne disperata, ed a nulla servirono i miei incitamenti a farsi una vita normale, per il suo ed il mio bene. Arrivò a minacciare il suicidio. Le imposi di cancellare quei terribili pensieri e di non avvicinarsi più a me, per potermi dimenticare più in fretta.»
E' così difficile parlarne di nuovo...” pensò per un istante, quasi tentato ad interrompersi, ma Alfredo lo guardò incoraggiante, lo sguardo pieno di un affetto e una compassione quasi paterni, e cosi riprese il racconto.
«Un giorno, semplicemente, smise di cercarmi. Credevo che fosse riuscita a superare tutto quanto. Non la vidi per mesi, fino a quando non appresi la terribile notizia. I genitori l'avevano trovata nel retro della loro casa, al ritorno dal lavoro. Eleonora si era gettata dal terrazzo al secondo piano, sfracellandosi al suolo. Doveva essere rimasta agonizzante in quella posizione almeno un paio d'ore prima di perdere la vita. Tutti la conoscevano come una ragazza tranquilla e solare, l’intero paese non riusciva a capacitarsi di quel suo folle gesto. Solo io ero a conoscenza del motivo che l’aveva spinta. Da quel momento, dentro di me era come morto qualcosa. Per vari giorni meditai di compiere lo stesso gesto, l’animo stretto in una morsa di dolore atroce. Alla fine mi convinsi e confessai in lacrime quello che era accaduto tra me ed Eleonora, al mio abate. Inizialmente Padre Clemente rimase esterrefatto, vidi l’ira attraversargli lo sguardo, poi decise di aiutarmi nell’unico modo che conosceva: mi consigliò di trasferirmi in un eremo, un luogo di fede, solitario, lontano da ogni traccia di quella vicenda, dove avrei potuto dedicare la mia vita completamente a Dio, per pentirmi, ripagare il tradimento con la preghiera e purificare così la mia anima.» Infine aggiunse «Nessuno a parte te e Clemente è mai stato reso partecipe della mia storia».
Solo a questo punto Cesare alzò lo sguardo verso il volto di Alfredo: era rigato da lacrime.
«Perdonami, Alfredo. Ti sto dando altro tormento. Forse non dovevo parlarti di fatti così tristi nella tua condizione» ma mentre lo diceva si rese conto, osservando meglio il fratello,che questi stava sorridendo, le sue erano lacrime di gioia.
«Affatto Cesare... s-sono felice perché finalmente ho qui accanto a me qualcuno che riesce davvero a comprendere q-quello che provo... v-vedi, il Signore ti ha fatto veramente giungere a me, per la tua e la mia salvezza.»
Il suono di quelle parole giunse a Cesare come una benedizione, non si era mai sentito così sollevato. Riuscì a sorridere, un sorriso spontaneo che non affiorava da mesi alle sue labbra, e i due rimasero a lungo in silenzio, in pace finalmente.
La campana della chiesa, segnale della fine delle preghiere, li svegliò. Rapidamente i monaci si sarebbero riversati nel refettorio per consumare la cena in comunità.
Cesare si congedò con la promessa di tornare il giorno seguente a fargli visita.
Ebbe così inizio una nuova abitudine per Cesare. Padre Evaristo non poté che acconsentire affinché il monaco avesse il permesso di tornare regolarmente nella cella del malato: infatti, sin dal loro primo incontro le crisi e gli spasmi di Alfredo erano diminuiti drasticamente e il merito di tale sollievo non poteva che andare alla compagnia del nuovo confratello, che tanta pace pareva portare nell’animo tormentato dal morbo del giovane monaco. Lo stesso Alfredo continuava a richiedere la presenza di Cesare, anche solo come compagnia silenziosa accanto al letto.
Ora capisco, Signore. La tua volontà era questa sin dall'inizio. E' questa la fede che avevo perso? O forse non l'avevo mai trovata, e ora sono finalmente in pace? Ti ringrazio per avermi mostrato la via” cosi sì ripeteva Cesare prima di ogni loro nuovo incontro. Non aveva comunque rinunciato ad approfondire le sue indagini sulla insolita e persistente malattia che affliggeva l’amico, e approfittava di ogni loro incontro per portare avanti le sue osservazioni. Scoprì che Alfredo aveva avuto la prima crisi durante una preghiera serale circa un mese prima. Inizialmente si era pensato ad un episodio isolato, causato dalla stanchezza dovuta al ruolo di ortolano a cui era adibito, ma quando le crisi avevano preso a ripresentarsi sempre più spesso, accompagnate da crescenti spasmi muscolari che alla fine lo avevano costretto a restare disteso a letto, era stato convocato il medico. Questo aveva provato ogni tipo di rimedio, ma la condizione del malato era peggiorata a vista d'occhio ad ogni crisi.

Una sera, dopo ormai dieci giorni di visite quotidiane, al suo ingresso nella cella Cesare trovò con sorpresa Alfredo non più adagiato sui cuscini, ma seduto sul letto. Il ragazzo però aveva uno sguardo pensieroso.
«Alfredo, sei riuscito a sederti finalmente!» esultò Cesare avvicinandosi a lui.
«Già. Ce l'ho fatta» rispose questi, ma la sua voce era piatta e Cesare percepì una punta d'ansia nel suo tono.
«Che succede Alfredo? Dovresti essere felice di esserci riuscito. Cosa ti turba?»
Alfredo voltò lentamente la testa verso di lui.
«C'è una cosa di cui ancora non ti ho ancora parlato, amico mio.»
Cesare si sedette al suo fianco. «Parlamene, vedrai che ne trarrai sollievo.»
Alfredo chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. «C'è un altro motivo a cui non ti ho mai accennato, per cui non voglio essere spostato da qui. Sin dalle notti delle mie prime crisi ho iniziato a fare degli strani sogni. All'inizio credevo che fosse la febbre a procurarmeli, ma poi mi sono reso conto che c'era qualcosa di insolito, un legame fra loro, un nesso rappresentato proprio da questo eremo, o più precisamente dal nostro piccolo cimitero. Ci sei stato Cesare? In sogno mi aggiro per l'eremo, senza sosta attraverso stanze e corridoi ed infine giungo sempre li, vicino al vecchio altare situato al limitare del camposanto.»
Cesare lo aveva notato durante la sua seconda settimana di permanenza. L'altare del cimitero era un enorme blocco di marmo, simile a quello della chiesa. Gli era stato spiegato che quello era l'altare della vecchia cappella che sorgeva a Nibizzola prima della costruzione dell'eremo, quando poi questa era stata abbattuta per lasciare posto al monastero si era deciso di conservarne l’altare, lasciandolo come monumento in memoria dei primi fratelli che avevano abitato lì e che ora erano sepolti proprio in quella zona, divenuta poi il cimitero dell’eremo. L'altare ormai era ridotto ad un rudere pieno di crepe, causate dalle intemperie, ciononostante era ancora utilizzato durante le messe funebri.
«Penserai che siano sogni macabri, ma ogni volta che giungo al cimitero una luce accecante mi pervade. Quando questo accade percepisco dentro di me un enorme tepore, sento la forza della vita che scorre in me come un fiume in piena. Ogni volta mi sveglio col ricordo di quella luce. Io sono certo che quelli fossero messaggi di Dio: credo che volesse farmi capire che nonostante il mio corpo fosse vicino alla morte la mia anima era ancora piena di vita.»
«Da cosa deriva quindi questa tua ansia? Sembra che Dio ti abbia veramente salvato questa volta» chiese Cesare.
«Già, dovrei esserne felice. Eppure sento di essermi come allontanato da Lui. Da un paio di giorni questi sogni non si ripresentano. Ho conosciuto la grazia del Signore, ed ora non posso più farne a meno. Vorrei riviverlo almeno un'altra volta, anche se questo dovesse costarmi la ritrovata salute» guardò Cesare «Mi reputi un egoista?»
Il fratello si affrettò a rispondergli: «Niente affatto Alfredo, anzi credo che tutto ciò sia sempre una manifestazione del tuo amore verso Dio. Ora però devi riprendere in mano la tua vita, il Signore ti ha fatto un grande dono facendoti guarire spontaneamente, ora devi dimostrargli che tutto ciò non è stato vano.»
Alfredo finalmente sorrise. Fece per stringere la mano di Cesare, che in risposta lo abbracciò calorosamente, avendo cura di non procurargli dolore agli arti nello slancio.
«Grazie Cesare» sorrise questi ricambiando l’abbraccio.

Si svegliò di soprassalto. Vide che la stanza era immersa nell'oscurità, ma a parte questo non vi era nulla di strano. Eppure, anche dopo diversi minuti passati a rivoltarsi sul materasso, non riusciva a riprendere sonno. Era inquieto, ma non ne capiva il motivo.
Alla fine si ritrovò a fissare il giardino, come sempre.
Proprio mentre stava per tornare a chiudere gli occhi e tentare di riprendere sonno, udì distintamente dei passi veloci provenire dal piano sottostante. Improvvisamente da sotto il porticato emersero di corsa tre individui.
Aveva visto fin troppe volte una scena simile, in quell'attimo però il suo cuore prese a battere più forte “Cosa diamine sta succedendo qui?! Perché la gente continua ad aggirarsi di notte quando sarebbe proibito?!” sbottò tra sé.
Le tre figure raggiunsero il cimitero, immergendosi nell'oscurità.
Cesare non sapeva se uscire ed andare ad avvertire l'abate, ma poi la sua attenzione fu attirata nuovamente da un movimento nella zona del camposanto. Dall’oscurità uscì una sola ombra, percorrendo in senso opposto il tragitto.
I passi risuonarono sotto il porticato e sembrarono dirigersi verso il cortile interno.
Per Cesare era abbastanza.
Si diresse subito verso la porta della sua cella aprendola con foga.
DOOONG!! DOOONG!!!
Cesare si bloccò sulla soglia, impietrito.
Quelle che aveva appena udito erano le campane funebri.

Nessun commento:

Posta un commento